Elaborazione grafica di Guido Nestola

29.6.05

Milano, Italia, Quarto Mondo

Siamo tutti in balcone, a catturare l'ultima luce del giorno. Il tramonto è coperto, ma ce n'è ancora abbastanza. Sulla veranda, nel palazzo accanto, hanno anticipato la cena: provano a trasformare l'evento in un'occasione divertente e anche un po' romantica. Il giovane ingegnere del quinto piano ha smesso il completo classico e boccheggia appoggiato alla ringhiera in calzoncini color cachi: soffre il caldo visibilmente, gli sta bene, impara a urlare in faccia di prima mattina a sua figlia di tre anni, che chissà dove avrà mandato in vacanza.

Siamo tutti nella stessa situazione, ma dal silenzio che regna nel cortile non sembra affatto. Non c'è modo di socializzare, neanche di fronte al buio artificiale, obbligato delle ultime quattro ore. La signora del quarto piano, che mi ha sentito ansimare per le scale, ha affacciato il naso alla porta e s'è ritratta subito; ora tiene lo sguardo basso, non fiata. Ce l'avranno con me? Avranno scoperto che è stata la mia filippina a spegnere le luci di tre palazzi interi accendendo la lavatrice, e non hanno il coraggio di dirmelo? O forse si vergognano all'idea di avere qualche goccia d'acqua in più che esce dai loro rubinetti ai piani inferiori, in questi giorni di grande siccità?

Oddio, piove. Anzi, tuona. Un fulmine, presto, tutti dentro. La ragazzina che sparecchia sulla veranda accanto fa cadere un attimo lo sguardo sulle mie rotondità nude e sembra quasi terrorizzata. Fugge via scandalizzata, raggomitolata attorno ai piatti vuoti che ha appena raccolto.

Sono le otto di sera, manca la luce da tre ore e mezza, telefono all'AEM, la municipalizzata dell'energia, per segnalare a mia volta il guasto. Risponde una voce maschile, che mi spiega, mi rassicura, si burocratizza. E' un problema di sovraccarico, non è blackout, dice. Non siamo i soli a denunciarlo: se la luce non è ancora tornata dopo tanto tempo, è perché la squadra di pronto intervento non è ancora arrivata. Fin qui ci sarei arrivato anch'io. Mi chiede di ripetergli il cognome e l'indirizzo del palazzo. Un palazzo nobile, replica. In che senso?, gli chiedo. Beh, ci abitava Craxi, ha voglia di ironizzare. E' quello di fronte, dico seccato, e forse quando ci abitava lui le cose andavano un po' meglio di questo schifo.

Tutto questo accade a Milano, Europa centrale, la capitale della produttività, dopo quattro giorni di grande calco. Si figuri che cosa sarà ad agosto. E' la voce dell'ingegnere del quinto piano. Mi piego sulla ringhiera, incredulo. Si rivolge proprio a me, stupisco. Ha letto il Corriere di oggi?, continua. La pagina di Milano, dice, resti lì gliela mostro io. Rientra in casa e ne esce velocemente. Morti per il caldo, il presidente della provincia che vuole sbaraccare il mercato di Papiniano perché c'è troppa illegalità, le mogli dei delinquenti che spingono via i carabinieri per impedirgli di perquisire le case di viale Fulvio Testi. Neanche a Napoli, ma che dico Napoli, neanche la Nigeria: oè, dico, questa è Milano, luglio 2005. La civile Milano, Milano la virtuosa, Milano che fa i danè. Miracolo, l'ingegnere s'è convertito: lascia Bossi, spernacchia Fini, e almeno apre gli occhi. In fondo, non ci vuole tanto a vedere la realtà di una città sfasciata e allo sfascio, che ha imboccato una deriva pericolosa, che sotto il vestito sta rivelando di non avere niente per davvero, nemmeno un paio di slip di misura per coprire le sue pudenda. L'altro giorno un amico mi ha confessato che vuole lasciar tutto e tentare la fortuna in Marocco, con una Onlus per allevare pesci gatto: forse a Tangeri si sta un po' meglio di così.

La luce manca ancora, ma l'ingegnere del quinto piano ha acceso la scintilla. Dai balconi si leva un brusio. Proteste, voci che si alzano, vergogna, uno scandalo, che schifo, peggio dell'Africa. Si socializza così, a Milano, luglio 2005. La signora del quarto piano svela un sorriso gentile, dalla finestra di fronte alla sua una studentessa che ha continuato a sistemare fotocopie in penombra lancia un'idea: perché non ci ritroviamo tutti in cortile tra un quarto d'ora e non portiamo ognuno qualcosa da mangiare e bere? Silenzio imbarazzato, poi divertito. Dalla veranda accanto a me, un tipo baffuto accetta: Noi avevamo un'insalata di piovra (perché a Milano è tutto più grande e il polpo del Sud qui si chiama piovra), se volete ci stringiamo un po'. L'ingegnere porta il vino, la studentessa di fronte ha un pezzo di pecorino toscano, la signora del quarto ci deve pensare, la moglie dell'avvocato col pancione al secondo piano chiede dieci minuti in più per tirare due cotolette. Manco solo io. Okay per i dieci minuti in più, dico: vado in cucina a preparare il couscous.

NOTA: questo racconto è liberamente ispirato alla realtà, scritto su un pc portatile alimentato a batteria davanti a una candela. Dopo sei ore e 15' di mancanza di elettricità, l'AEM non è ancora intervenuta.

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20.6.05

Uno che passa

Stasera sono in buona. Non scrivevo da tempo e forse mi fermerò di nuovo. Ho cercato di dare forma a questa condizione, a capire perché sia passato dai primi mesi di fervore assoluto a questi di disincanto. E ho trovato questa defizione di Michele Marziani, che si addice anche al mio caso:
Fare un bel weblog è un "mestiere": richiede di essere in rete sempre, o quasi. Io preferisco guardarmi in giro. E scrivere qui, quando capita, come ho sempre fatto. Non sono un blogger, sono uno che passa nel web di tanto in tanto. Se ho tempo di far due chiacchiere mi fermo, sennò tiro dritto. E poi, lo confesso, con una punta di snobismo, mi piace l'idea che qui siamo in pochi e non riusciamo ad emergere. Sotto, a volte, si sta meglio.


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Quo vadis, Gabry?

quo vadis, baby?
Bologna di notte, Angela Baraldi, ma soprattutto il nuovo Salvatores, di cui credo di aver visto ormai trenta volte Mediterraneo. C'erano troppi motivi perché non mancassi al secondo giorno di proiezione a Milano, Quo vadis, baby, malgrado fosse stato annunciato come un noir (sia pure al femminile), genere che non amo affatto. Non avevo aspettative particolari, essendo tra quelli che, se apprezzano un'opera prima, evitano la seconda, convinti che i capolavori sono molto spesso figli unici: mi era piaciuto molto Io non ho paura, dopo essere inciampato in Nirvana e Amnesia, quindi ero pronto a rimanere deluso.

Ora, non è giusto parlare di delusione, quanto di un'altra sensazione che credo abbastanza diffusa. Uscendo dal cinema, mi sono chiesto: Che cosa significa? Dove voleva andare a parare? Intrigante la storia, curata l'ambientazione, luce perfetta, colore in tinta noir, brava anche la Baraldi nonostante un paio di forzature, adeguate e frequenti le citazioni, ma... il vecchio e caro messaggio? A me, i film, devono dire qualcosa. Se sono fatti bene, tanto meglio, ma intanto devono lasciare un segno, lanciare un segnale, far riflettere, discutere, ragionare, devono riemergere a distanza. Non sopporto gli esercizi di stile, fini a se stessi: creano fenomeni che si nascondono dietro una forma originale e perdono di vista il contenuto, la sostanza.

Quo vadis, baby? mi ha fatto ripensare prima a 2046 di Wong Kar-wai, elegantissimo, rotondo e lucido come una porcellana cinese, ammiccante, anche questo pieno di citazioni (le poche cose che ricordo sono le pose fumanti à la Clark Gable del protagonista maschile), ma assolutamente privo di comunicazione. Poi a un racconto di Ali Smith, considerata la nuova scoperta della giovane letteratura britannica, tra i cinque della raccolta Hotel World, pubblicata da Minimum fax. Eccone l'incipit:
& siccome la cosa principale è che ho contato ero lì & siccome sono tornata a casa con queste scarpe nuove pazzesche & mi hanno dato anche la colazione & che colazione
& siccome ci sono le cinque sterline
& siccome lo sapevo già sapevo di quella cosa orribile che le si era infilata dentro sottosopra l'avevo letto sul giornale non è stata una sorpresa uno scock o niente lo sapevo...
& via di questo passo. & di che cosa stiamo parlando?

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19.6.05

Notti in bianco

Ho visto cose, in un'ora, l'altra notte, che non immaginavo di dover vedere. Migliaia di persone nelle strade di Milano, sudate, accaldate, convinte d'essere al mare e vestite (e ciabattate) di conseguenza, come se la città degli affari e dei tailleurs fosse un'enorme baracchino di angurie. Qualche palco malamente attrezzato ("Mario, mi senti?... Eh, la madonna se mi senti, mi sento io da qui sù con tutto 'st'eco. Mario, alora, ho perso un monitor, ma non so qual è"), jazz band improvvisate, pochissimi negozi aperti, qualche poliziotto a spasso che si godeva le balconate delle ragazze più procaci. E poi auto, motorini, taxi bloccati, e tassisti che smadonnavano.
Diranno che la Notte bianca di Milano è stata un successo, che i milanesi hanno voglia di vita, di spazi, di novità. Mi è bastato rimanere un'ora a galla nella marea a piedi di sabato sera, tra mezzanotte e l'una, e poi infognarmi nel traffico immobile di corso Magena, per affermare con sicurezza il contrario. Forse avrebbe davvero avuto un successo enorme, se fosse stata minimamente organizzata: se, per esempio, fosse stato chiuso il centro al traffico, per evitare che il concerto dei clacson coprisse quello delle rade orchestrine, o se si fosse trovato uno straccio di accordo con l'Associazione dei commercianti per tenere le vetrine illuminate e le porte aperte fino alle 2 del mattino. Un successo, non un delirio. Anche senza il mare.

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4.6.05

Sì, Sì, Sì e Sì

Ho aderito, aggiungendo la mia firma in calce, a questo documento:
Documento sul referendum sulla procreazione assistita
Le giornaliste, i giornalisti, le poligrafiche, i poligrafici del Corriere della Sera e La Gazzetta dello Sport che sottoscrivono questo documento VOTANO Sì.

a poter decidere del proprio futuro di padre e di madre.
a una scelta per la vita e per la libertà della ricerca.
a una Sanità che non costringa le coppie sterili a costose fughe all'estero.
Dicono Sì, invitando tutti, uomini e donne, giovani e meno giovani, a non disertare un appuntamento referendario così delicato. Non possiamo lasciare che una legge anacronistica neghi un futuro procreativo a chi ha bisogno di cure per realizzare il proprio desiderio di maternità e di paternità.

Le firme sono tante e non solo di donne. Un segno di grande civiltà.

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