Elaborazione grafica di Guido Nestola

31.7.03

Internet, l'obiettività e le opinioni

La storia è abbastanza nota anche a chi non segue lo sport (americano) con passione e devozione quotidiana. Kobe Bryant è stato incriminato per stupro nei confronti di una diciannovenne. Chi è Kobe Bryant? Lo sanno quasi tutti. E' un uomo di 24 anni dotato di un talento speciale per giocare a pallacanestro, cresciuto in Italia fra i 4 e i 10 anni, diventato una stella dei Los Angeles Lakers dopo:
  • aver deciso di non frequentare l'università e, vent'anni dopo l'ultimo fenomeno del suo calibro, dichiararsi eleggibile a 18 anni per le scelte della Nba


  • aver vinto 3 titoli Nba di seguito giocando accanto a Shaquille O'Neal, un gigante di 2.23 a cui basta alzare un braccio per mettere un pallone in un canestro


  • aver dimostrato che anche un ragazzo di colore può essere gentile, elegante, cortese, brillante, non necessariamente violento come l'iconografia classica dei ghetti americani. Trasformandosi, così, in un modello positivo sul quale alcuni dei più grandi marchi mondiali (McDonald's, Adidas e poi Nike, Sprite, ecc.).


Chi è la vittima? Ecco, su questo si è scatenato un putiferio. Ma anche in questo caso, lo sanno ormai quasi tutti. Poche ore dopo che un procuratore del Colorado ha incriminato Bryant chiedendo di rispettare la privacy della presunta violentata, emittenti radio e siti web hanno pubblicato nome e cognome, indirizzo di casa e di e-mail, fotografia satellitare dell'abitazione e così via. Oggi (!) il giudice che dovrà seguire il caso (prima udienza il 6 agosto, non voglio immaginare che cosa succederà...) ha emesso un'ordinanza in cui vieta che siano rese note informazioni private sulla ragazza. E naturalmente i giornali, molti dei quali hanno fatto finta di evitare con sdegno l'ipotesi di pubblicare i dettagli più intimi della vittima, hanno gridato all'atto anti-costituzionale.

Naturalmente, la vicenda è diventata un nuovo caso nazionale. Su cui si discute di tutto: del voyeurismo come della finta logica benpensante, dell'etica della stampa e del crollo dei miti (e soprattutto delle conseguenze economiche sul mercato dell'immagine). Ma soprattutto del potere intrusivo di internet. Se c'è una cosa su cui tutti sono d'accordo è che, come titola il Los Angeles Times, Internet sta ridisegnando la storia di Kobe. Un concetto forte, che riporta a galla l'annosa diatriba sulla credibilità e sull'attendibilità delle fonti di informazioni sul web (tra giornali online o blog, ormai, non c'è quasi più differenza nell'opinione pubblica americana).

Provo a fare una sintesi di quello che ho letto in questi giorni. Su molte delle affermazioni seguenti, per esperienza diretta, non riesco proprio a dissentire:
  • Oggi negli Usa ci sono circa 8 volte più utenti di Internet - più di 160 milioni - di quanti fossero ai tempi del caso O.J. Simpson. La loro sete di informazione immediata e la determinazione degli investitori di trarre profitti da questa ha portato alla creazione dei siti più disparati (Los Angeles Times)


  • Su Internet non c'è controllo, perché non esiste la fase di editing. E quelo che va in rete viene rilanciato dalle radio che, a loro volta, non ha un sistema di filtro e di verifica delle notizie. Un meccanismo che induce soprattutto i piccoli giornali a forzare la costruzione degli articoli, provando in qualche modo a far comparire le notizie diffuse in rete o in radio, trasformandole automaticamente in fatti. (Los Angeles Times)


  • Internet è stata marchiata come la palude etica del giornalismo. Anche grandi e rispettate organizzazioni di informazione stanno tentando di rischiare a pubblicare alcune informazioni più dubbie o discutibili prima sui loro web sit e poi sulla carta stampata. Internet è la casa per i protagonisti del gossip, come Matt Drudge, e per i suoi cloni. Ma nonostante lo sforzo di molti siti anche rispettati, la percezione diffusa è che un quotidiano come la Washington Post ha più scrupoli di Fark. com. La storia di Kobe Bryant non cambierà quella percezione, al contrario la peggiorerà ulteriormente. (Mark Glaser)


  • Il mondo online si muove in base a un differente sistema di regole. Chiedete a chi ci lavora e vi sentirete rispondere: "Online non esiste uno standard - è come il wild, wild West". (Mark Glaser)


  • Ci sono differenti punti di vista sull'etica del giornalismo online. Alcuni paragonano il potere dei Web sites a quello dei media offline come una pistola ad acqua rispetto a una pistola vera. Le correzioni o le cancellazioni progressive di una notizia rendono differente lo standard etico di riferimento. (Mark Glaser)


  • La rete concede una libertà mai conosciuta prima e uno spazio equivalente a quello della stampa a ciascuno; ma se si abusa di questo potere e se i confini etici vengono scavalcati, il mondo online continuerà ad avere quella sporca e retriva reputazione di palude etica. (Mark Glaser)



Una conclusione possibile è quella che ho letto nella pagina delle opinioni del Wall Street Journal di lunedì 28 luglio. Scrive Robert L. Bartley, ex redattore capo del giornale:
Stiamo arrivando alla fine dell'era dell'"obiettività" che ha dominato il giornalismo in questi anni. Abbiamo invece bisogno di definire una nuova etica che attribuisca legittimità all'opinione, che sia onestamente espressa e disciplinata da un certo senso di decoro.
Spesso è vero che, appellandosi all'"obiettività" la stampa si attribuisce il ruolo di perfetto arbitro della verità definitiva. Questa è una pretesa che travalica la capacità umana.
Ciò vale soprattutto alla luce delle esigenze imposte dalla tecnologia moderna. Con la radio, la televisione con internet, che producono informazione istantanea, la carta stampata deve trovare la propria cifra non già spiegando gli avvenimenti ma il loro significato. E questa è manifestamente una questione di opioni.


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30.7.03

Città

foto di Selin AlemdarPer una notte, qualche giorno fa, prima che Guido Nestola mi regalasse la testata di Fuoridalcoro, ho provato a giocare con un'immagine. Più che altro, con i sentimenti che quell'immagine muoveva. Come si può vedere qui accanto, era Istanbul, fotografata da Selin Alemdar (è possibile trovarla qui nella dimensione originale).

Mi è piaciuto il bianco e nero, soprattutto mi è piaciuta l'idea di Istanbul che sentivo di condividere con l'autore. Istanbul, per me, è una delle città più belle al mondo, fra le tante che ho avuto la fortuna di visitare. Corrisponde precisamente al mio concetto ideale di Sud: del mondo, dell'anima, ecc. Un concetto che è anche il tema di Kerosene, il web-magazine da cui ho tratto la foto e nel quale i segni sono quasi sempre migliori delle parole.

Qualche giorno fa, discutevo con un paio di amici di quanto sia difficile descrivere una città. Si rischia di generalizzare, banalizzando: Roma è solare e piaciona, Milano frenetica e livida, e così via. Possibile. Poi, però, ho cominciato a leggere Il corpo, l'ultimo romanzo di Kureishi (che ho scelto in un ardito tentativo intellettuale, legato anche i weblog, del quale un giorno parlerò. Forse) e ho trovato questa descrizione splendida di Londra:

Sebbene io abbia vissuto a Londra fin da quando ero studente, ancora oggi, ogni volta che apro la porta, sono eccitato: cosa potrei vedere o sentire, chi potrei incontrare, chi potrebbe venirmi in mente... Londra non sembra più parte della Gran Bretagna - nella mia visione un posto stretto e oscuro pieno di campi, negozi chiusi con un assito e città che cercano di imitare Londra -, ma si è sviluppata in una città-stato semi indipendente, come New York, e ha cominciato a scendere a patti con l'importanza della gratificazione.


Ecco, una città gratificante. Ogni volta che mi capita di sfogliare l'inserto domenicale del Times, sono quasi aggredito dalla quantità impressionante di appuntamenti - concerti, spettacoli, mostre d'arte, film - che Londra può offrire. Penso che mi basterebbe una settimana per fare come i cammelli: ubriacarmi di tutto e vivere nel deserto di Milano per un anno ancora.

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Commenti

Barbara Durazzano, che da qualche giorno scrive su Oltrepassare, mi scrive:

Per caso ho trovato il tuo blog e per caso anche io da poco ho letto il libro di E. Trevi di cui parli e ho visto la meglio gioventù.

Nel libro mi sono ritrovata, Le scelte stilistiche e le citazioni mi gustano, descrive le sensazioni di esperienze vissute. Non amo analizzare troppo. Ho amato molto:
"di notte ci aggiriamo con i guinzagli, con i sacchetti per le cacche. Ci riconosciamo da lontano. Gente col cane. Dog people. Perlustratori di giardinetti. Complici furtivi, occhiuti sovrintendenti di cacatine e pisciatine. Cerchiamo sostegno l'uno nell'altro, contro il mondo ostile."

Per cio che riguarda il film:
la seconda parte del filmone è la descrizione di una maturità che ancora non mi appartiene,
ma sia la prima che la seconda parte sono splendide nella loro differenza. Unica cosa che non mi convince è il finale, speranzoso, 1 po mieloso.
Forse anche io mi aspetto una vena + politica, ma è giusto che non ci fosse. Sappiamo giudicare da soli...forse. purtroppo o per fortuna non ho vissuto il periodo delle BR, e credo che i raccontino non bastino.
Spero che mia madre veda il film, lei che c'era in quegli anni.


A volte, come dice Barbara, è proprio questa la funzione di un libro o di un film: fare in modo che chi legge o chi guarda si identifichi, ritrovi tracce di sé nei dialoghi di un romanzo o di una pseudo-fiction, non li consideri un puro esercizio di stile o un virtuosismo fine a se stesso.

Quanto alle madri, vorrei che anche la mia vedesse La meglio gioventù. Il personaggio di Adriana Asti è il suo, negli slanci e nella sofferenza, purtroppo non nella capacità di andare oltre quest'ultima. Ma spesso le madri preferiscono non vedere.

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28.7.03

Virtuosismi da maestrino

La notte di un anno fa cominciavo a scrivere questo blog. Ho superato crisi e momenti difficili, sono entrato a far parte di un gruppo con il quale non è bello solo scriversi e leggersi, ma anche mangiare e bere attorno allo stesso tavolo. Per ora, va bene così. Ppfftt, ho spento la candelina.

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Distribuzione della cultura

Rispondo qui ai commenti di Squonk e Caracaterina al precedente post su Cani, sistemi e mercati in cui riportavo alcune originali affermazioni di Emanuele Trevi. Lo faccio perché è un commento un po' lungo, ma anche perché mi piacerebbe renderlo visibile per una discussione più ampia (se mai è possibile, con questa moria di blogger-vacanzieri)

In quel post c'erano, è vero, entrambi gli aspetti:
  • la diffusione della letteratura

  • il piacere che alcuni "Scrittori Autorizzati" provano (o cercano) di voler stupire.


Una tendenza, quest'ultima, che, da semplicissimo lettore, vedo abbastanza diffusa negli ultimi tempi tra numerosi scrittori dell'ultima generazione. Non a caso, come scrivevo nel primo post su Cani, sistemi e mercati, Trevi è stato smascherato nella sua operazione falsamente "autenticista" dei Cani del nulla da alcuni dei suoi stessi compagnucci di merende di critica letteraria.

Quanto alla distribuzione, Squonk, tra le parole di Trevi mi piaceva proprio l'idea di una letteratura che non rimanesse ancorata al libro, ma si diffondesse anche su Internet, che andasse oltre l'oggetto per trovare uno spazio più ampio. Non necessariamente inedita, ma orizzontale. E, soprattutto, non necessariamente letteratura, quale ad esempio quella prodotta (e tanto discussa proprio dagli Scrittori Autorizzati) dai blog.

I weblog sono soltanto un esperimento o proprio certi timori, comprensibili e condivisibili, confermano il fatto che, almeno per noi italiani, Internet non sia ancora un mezzo culturalmente così diffuso e non abbia raggiunto una penetrazione sufficiente? E' possibile, dunque, che, anche per noi che lo usiamo (come dire) facendolo, come dice Douglas Cooper, il Web continui a essere una suggestione, ma non ancora un mezzo reale di distribuzione?

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25.7.03

Piccola pubblicità

E' disponibile da qualche giorno il programma del Festival letteratura di Mantova. Tra gli appuntamenti della giornata di apertura, un dialogo fra Lidia Ravera e Beppe Sebaste, che posso immodestamente considerare un amico di Fuori dal coro.

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Cani, sistemi e mercati - 2

Ancora Emanuele Trevi e una tessitura un po' ardita con la catalogazione dei sistemi e dei mercati culturali di Giuseppe Granieri e le polemiche sul valore letterario o puramente esistenziale dei blog. Su Alias, supplemento settimanale del Manifesto, del 14 giugno, Trevi introduce così La casa dei libri, un romanzo di Richard Brautigan, pubblicato da Marcos y Marcos:
Chi identifica la latteratura con i libri che si pubblicano, si sbaglia di grosso. Non è detto che si perda il meglio, ovviamente: ma l'aspetto fieramente underground del dattiloscritto consegnato a mano o per posta, o degli attachment che viaggiano nella rete, ha un fascino tutto suo, molto resistente. Non si può negare che quasi ogni inedito aspira a trasformarsi in edito. E' una specie di pulsione masochistica che ci spinge a desiderare di essere accolti nel carcere piranesiano della promozione editoriale, dei pareri critici, delle copertine paracule, dei codici a barre. Ma questa trasformazione ha un prezzo: raggela il processo nella forma del prodotto, costringe l'infinità varietà delle pratiche a passare nel rigido setaccio delle istituzioni. L'utopia di una letteratura del tutto inedita, fondata su legami personali e canali di trasmissione casuali e transitori, mi sembra abbastanza sorridente.


Ehi laggiù, da queste parti qualcuno usa finalmente le parole giuste.

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24.7.03

Cani, sistemi e mercati - 1

Qualche settimana fa ho letto I cani del nulla, di Emanuele Trevi, pubblicato da Einaudi. Una buona lettura, ma nemmeno questa un capolavoro (come in molti, invece, s'erano affannati a presentarla). Che mi ha colpito soprattutto per la parte finale, sviluppata quasi in forma di blog letterario: un taccuino di appunti pubblico, con una cadenza più cronologica che logica, un accumulo progressivo di pensieri e riflessioni, scritto in maniera così credibile da sembrare autentica, autobiografica almeno in apparenza.

Su questi concetti si soffermano Christian Raimo e Andrea Cortellessa in un dialogo sulla newsletter di Minimum fax. Scrive Cortellessa:

L’“autenticità” è una convenzione. Bene ha fatto il titolista della Talpa, di fronte al pezzo di Cordelli, a coniare la formula di autenticismo. Che con l’autenticità – la vita, diciamo – ha lo stesso rapporto che il realismo ha con la realtà: convenzionale e retorico.

Una differenza sottile ma sostanziale, che può essere molto utile anche a proposito del famoso dibattito con Scarpa e la Benedetti sull'identità dei blogger. Più avanti, Cortellessa scrive:

qui si tocca con mano l’aspetto interessante dell’operazione di Trevi. Mentre Lodoli falsifica la ‘sua’ come realtà/vita, scientemente ingannando il lettore ingenuo, Trevi la finge. I semiologi pragmatici degli speech acts hanno spiegato da tempo la differenza che corre fra falso e finto. Il primo, come un riporto tricologico o i tacchi interni alle scarpe, tende a ingannare chi guarda (“questi sono proprio i miei capelli”; “io non sono poi così più basso di Chirac”), il secondo, come un naso con occhiali e baffi alla Groucho, esibisce la propria falsità (e può anche voler dire: “questi non sono i miei baffi, eppure io in un certo senso voglio avere questi baffi, mi voglio mostrare con questi baffi”).

E ancora oltre aggiunge:

I generi convocati in questa operazione siano il diario e il saggio. Che sono, nella tradizione prenovecentesca, i generi dell’autenticità: quelli dove ‘viene fuori l’uomo’ – cioè, proverbialmente, il suo stile. Qui invece, com’è invece proprio del Novecento, non viene fuori niente – o, come dice subito il titolo del libro, viene appunto fuori il niente (ha un bel nominalisticamente giocare, Trevi, sul niente e il nulla, sul nientismo che sarebbe altra cosa dal nobile e magniloquente nichilismo).

Fin qui è possibile citare, per me povero mortale. Il resto del dialogo, e anche l'operazione letteraria di Trevi che è stata in qualche modo smascherata, mi ha fatto risuonare nella testa le parole di Giuseppe Granieri a proposito del linguaggio e delle formule utilizzate da alcuni intellettuali dentro e fuori dalla rete.

Qualche giorno fa, leggevo su Nazione indiana un intervento dello stesso Raimo a proposito di La meglio gioventù. A me, il film è piaciuto. Più la prima che la seconda parte: più storica e intensa una, più fiction e intimista (con qualche cedimento strutturale, come l'apparizione del fantasma del fratello: per salvarlo, si può leggerlo solo come un omaggio alla magia senza tempo del cinema) l'altra. Come se la storia del nostro Paese fra gli Anni 60 e gli Anni 80 fosse già stata digerita, metabolizzata e collocata, mentre quella dell'ultimo ventennio debba essere ancora interiorizzata, accolta, anche interiorizzata.

Nel complesso, per dirla terraterra, il film mi ha commosso: nelle vicende di molti dei protagonisti ho trovato momenti della mia vita, sensazioni che ho vissuto in prima persona e che mi hanno toccato nel profondo. A Raimo, invece, non è affatto piaciuto. E, tra i vari motivi (alcuni dei quali anche in parte condivisibili), c'è pure:
L’assoluta rimozione di un’interpretazione minimamente marxista, storicista.
Forse la vita non sarà una partita di calcetto, ma non si può nemmeno pretendere che un film debba essere una summa del Capitale.

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23.7.03

Repetita juventus... l'educazione

A Gian, che qualche giorno fa aveva lasciato un commento giusto ma non proprio elegante al post sul Festival dei Due Mondi di Spoleto, ho appena scritto la seguente mail:

To: tlcigi@eudoramail.com
Subject: Re: Cosa resterà?

Body:
Ciao, Gian. Forse non te ne sei accorto o fai finta di niente (spero per te che sia almeno in vacanza), ma dopo le tue gentili parole io continua a essere in attesa di una tua risposta.

Ti ringrazio anche questa volta e ti saluto.

Carlo Annese

P.S.: e mi raccomando di nuovo non dimenticare di indicare il nome nella risposta. Ci conto.


Ho deciso di pubblicarla perché qui non si tratta solo di una questione di netiquette, ma di educazione in senso lato. I blog sono solo un'appendice, tecnologica e virtuale, di un modo di vivere collettivo del quale l'educazione, il rispetto e (come direbbe mia madre) le buone maniere sono le basi fondamentali.

Aspettiamo tutti buone nuove da Gian.


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22.7.03

Giornali aperti

Il Dallas Morning News ha aperto l'EdBlog, definito "un giornale elettronico della redazione, disegnato per consentire ai suoi membri di dividere con il pubblico i propri pensieri in evoluzione su una varietà di argomenti e per aprire in favore dei lettori una finestra nei nostri processi di sviluppo delle opinioni". Naturalmente, le opinioni espresse del blog sono individuali e non rappresentano la sintesi di quei processi.

Sottolineo il verbo to window nel testo originale, che ho tradotto molto liberamente come apertura di una finestra. In fondo, che cos'è questa se non una finestra aperta nel cortile del giornale?

Su EdBlog, peraltro, ho trovato il link al forum di opinioni lanciato dalla Bbc sulla figura di Idi Amin, in coma da qualche giorno. Al di là degli interventi dei lettori, mi sembra notevole il modo in cui la redazione introduce l'iniziativa:

Up to 400,000 people are estimated to have died during his presidency from 1971-79, and a whole generation of Ugandan intellectuals were either killed or fled into exile.

Under Mr Amin, Asians who dominated business in Uganda were given 90 days to leave the country, and their property was confiscated as he embarked on a programme to Africanise the economy.


Visto anche il recente caso-Kelly, fossi un altro, direi che i giornalisti inglesi sono influenzati dalla stampa... inglese, per l'85% nelle mani di ex comunisti.

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21.7.03

Un'ora sola. Ma dove?

Repubblica e l'Unità hanno scritto ieri di Un'ora sola, un film di 55 minuti di Alina Marazzi, mai arrivato nelle sale "ufficiali", che ha invece riempito i cineforum grazie al passaparola. Finalmente Rai Tre e BBC lo hanno acquistato per i palinsesti invernali, ma fino ad allora sarà possibile guardarlo in rare occasioni, abbastanza nascoste (l'elenco delle proiezioni si trova sul sito del film).

Gli stessi due quotidiani ne avevano già parlato qualche mese fa, considerato il tipo di operazione. Un'ora sola non è un film vero e proprio, ma un montaggio di spezzoni dei filmini domestici realizzati dal nonno dell'autrice (l'editore Urlico Hoepli) alla figlia, Liseli, la madre della Marazzi, morta suicida per una malattia nervosa nel '72. Il film è tornato di attualità, essendo stato presentato al Premio Bizzari, un vero e proprio festival dei documentari. E soprattutto perché è stato preso come modello di una cattiva considerazione dei documentari, per i quali ora si chiede la distribuzione anche nei cinema.

Dice Gianni Celati, autore di Visioni di case che crollano, in un'intervista pubblicata da Ttl de La Stampa e ripresa da Feltrinelli:

C'è un'aura di moralità che avvolge il documentario e che lo pone in antitesi con gli spettacoli del cinema. Il cinema sarebbe la finzione e il documentario sarebbe la realtà presentata senza infingimenti. Io però non credo che filmando il mondo esterno qualcuno mi documenti la cosiddetta realtà.
(...) Nel documentario c'è la possibilità di usare le immagini per compiere una ricerca su quello che vediamo, su come vediamo, sulle cose che ci trascinano o che paralizzano lo sguardo.
(...) Ormai l'obbligo principale in tutte le attività è quello di fare dei prodotti di consumo e di facile smercio. Il che vuole dire che non può esserci alcuna ricerca se non nella direzione del cosiddetto marketing. Nella letteratura sta accadendo lo stesso e i libri diventano sempre più tutti uguali, scritti nello stesso modo. Mi sembra che il documentario rappresenti ancora uno dei pochi spazi di lavoro e di pensiero non completamente devastati, ancora un terreno di ricerca, con una straordinaria fioritura di esempi degli ultimi anni. Non so quanto durerà.



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20.7.03

A Mantova

Se le promesse saranno rispettate, domani sarà reso noto il programma del Festivaletteratura di Mantova. Lo si potrà trovare sul sito, finalmente rinnovato. Buon segno.

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16.7.03

Riso amaro

Il Po è in secca. Siamo al disastro, certo non solo per l'infernale canicola provocata dall'effetto serra, ma anche per le carenze croniche nella gestione del fiume e delle terre che bagna. E i francesi cosa fanno? Poesia. Leggete qui cosa scrive Liberation.

Comme aspiré, évaporé, happé, le Pô s'est éclipsé. (...) Et l'image néoréaliste de Silvana Mangano en repiqueuse de riz, les jambes nues et les pieds dans l'eau du Pô, semble avoir jauni.

Ma la poesia del Po, quella vera, è un'altra: è quella di Gianni Celati e del meraviglioso Viaggetto sul Po di Cesare Zavattini (inserito qualche anno fa nelle Opere pubblicate da Bompiani) che mi ha fatto amare, io uomo del Sud, la pianura padana.

Ed è quella degli uomini e delle donne del Po si racconta, un bel reportage di Ermanno Rea, edito dal Saggiatore nel '96. Per chi vuol capire.

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Seminari

Per i pochissimi che ancora non lo sapessero, Cesarino Lamanna ha messo in rete il suo secondo blocco di lezioni sugli Rss for Dummies. Eccellente. Ma a questo punto, aspetto che mi spieghi:
  • Come si creano i trackback su Blogger.com

  • Come si creano i referrers

Naturalmente, suggerimenti e consigli sono benvenuti (anche per evitare a Cesare di lavorare troppo e di andare a Umbria Jazz per le meritate vacanze: siamo o non siamo orizzontali?)

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15.7.03

Le parole per dirlo

Il commento di Pasquale su Stucchi e le perplessità di Squonk su Promemoria mi hanno fatto tornare a galla un paio di articoli che ho letto qualche giorno fa a proposito della scrittura.

Il primo, sulla morte di Giuseppe Pontiggia. Laura Lepri, che ha sostituito Pontiggia come insegnante ai corsi di scrittura creativa di Milano, lo firmava sull'inserto Domenica del Sole 24ore. E vi raccontava di come lo scrittore si fosse messo a "rilavorare" a distanza di anni il romanzo La grande sera con il quale aveva vinto il Premio Strega.

Gli studenti erano appiattiti sulle poltrone del teatro. Se riscriveva Pontiggia, potevano farlo anche loro. Anzi, dovevano. Semplicemente. Fu quello il modo per insegnargli che "scrivere è riscrivere", che la spontaneità è un effetto, un risultato, non un modo di lavorare, che è il controllo dell'espressione a fare la differenza fra una confessione "core in mano" e un testo ben costruito. Flaubertiano in questo, come nel censimento inesausto dei luoghi comuni.

Piccolo inciso (già rivelato durante il convegno di Viterbo sui weblog). Pochi giorni prima di leggere questo articolo, avevo ascoltato una trasmissione su Radio3, nella quale Giorgio Montefoschi aveva descritto le abitudini di scrittura di Flaubert. Durante la stesura di Madame Bovary, Flaubert prendeva anche tre settimane per scrivere un dialogo in sei battute.

Riprendo. La Lepri continuava, citando direttamento Pontiggia:

"Diffidate degli avverbi sinceramente e onestamente. Intanto, onestà è una parola che lascio volentieri ai ladri, perché è una bugia, non si può essere onesti fino in fondo, e poi usate con parsimonia degli avverbi, sono parole composte, pesanti. Oppure scriveteli, se vi vengono, ma poi rileggete. Nove su dieci sono inutili. E, allora, cancellateli". Per gli aggettivi valeva la stessa indicazione. Pochi, calibrati, pertinenti, precisi. Controllo, questo era il suo metodo, là dove si pensa, soprattutto gli allievi più ingenui, che la scrittura "creativa" consista nel liberare istinti, disagi e drammi della quotidianità.

Questo controllo mi fa pensare all'urgenza dello scrivere nei blog. Non c'è modo di essere flaubertiani, il mezzo non lo consente: per chi scrive, ma soprattutto per chi dovrà leggere (essendo tutti consapevoli della compresenza di entrambi).

L'altro articolo era a firma di Franco Marcoaldi, sulla Repubblica, a proposito di Profilo di Clio, la raccolta di saggi di Iosif Brodskij pubblicata da Adelphi. Nel primo di questi, dal titolo Discorso allo stadio, scriveva Marcoaldi:

Brodskij invita i ragazzi ad avere cura del proprio linguaggio così come si fa con un conto in banca. Non è questione di "incrementare le entrate per farsi belli in un salotto o in camera da letto", dice il poeta: lo scopo è esprimere se stessi con la maggiore completezza e precisione possibile, perché "i sentimenti, le sfumature, i pensieri, le percezioni che rimangono senza nome, incapaci di trovare voce e insoddisfatti delle approssimazioni, si accumulano nell'individuo, repressi, e possono portare a un'esplosione, o implosione, psicologica".

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Cattive ragazze

Chi mi ha spedito la mail di segnalazione mi garantisce che l'iniziativa era qualcosa a metà fra lo spam e la pubblicità mirata (ai blogger). Sarà! A me, comunque, questa webzine (dedicata ai bambini un po' adulti) è piaciuta.

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Promemoria

Non preoccuparti di essere importante. Fai piccole azioni, ma falle velocemente.
Presta attenzione ai dettagli. Fai delle azioni irrilevanti e scollegate che abbiano poco se non alcun senso per gli altri. Prenditi una rivincita sul significato. Vendicati del significato per averti tenuto in ostaggio tutti questi anni.
Fai azioni come se queste dovessero avere un significato, quando in realtà non ce l'hanno.
Fai credere alle persone che da qualche parte c'è un significato in quello che fai, ma non rivelarlo.
Vai in luoghi dove le persone parlano un'altra lingua.
Comunica con la gente in una lingua che nessuno parla.
Cerca di essere malinteso. Dai alla gente il permesso di fraintenderti. Cerca di dare un falso significato alle cose non importanti. Cerca di distaccarti dalla necessità di essere compreso.
Cerca di smettere di desiderare di avere impatto sugli altri.
Vedi se qualcuno presta attenzione. Vedi se qualcuno si prende cura, vedi se qualcuno crede in te.
Vedi se qualcuno cerca di comprendere ciò che vuoi dire. Non avere paura di scatenare le tue ire.
Non avere paura.

E' un testo di Jess Curtis, autore delle coreografie di "Fallen - A visual poem of weight in space", uno spettacolo di danza a cui ho assistito a Spoleto. Lo trovo meraviglioso.

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Stucchi

Sarò impopolare, ma comincio a considerare stucchevoli tutte le ultime polemiche sull'essere o meno giornalisti, sull'odiare o meno i giornalisti e gli scrittori, sull'essere giornalisti o scrittori che odiano i blogger. Comincio adesso, lo ammetto, dopo che ho partecipato a lungo alle discussioni, ai dibattiti, alle prese di posizione, seriamente o con ironia, baciando le mani o argomentando con serietà. Ma mi sembra che negli ultimi tempi non stia emergendo nulla di nuovo, se non un irrefrenabile desiderio estivo di creare schieramenti, immaginare caste, ipotizzare scenari più o meno apocalittici.

Una considerazione che voglio fare è che questa pseudo o presunta comunità dei blogger sta producendo quello che molte altre pseudo o presunte comunità (categorie, aree, si chiamino in qualsiasi modo) hanno fatto quasi mai. Da mesi si sta autoanalizzando, studiando, interrogando. Non ho mai visto tanto sforzo per capire da dentro ciò che un fenomeno significhi. Esegeti di noi stessi, insomma, e non tanto perché temiamo o mal sopportiamo il giudizio degli "altri", ma perché è la consapevolezza il motore che nella maggior parte dei casi ci spinge. In più, alcuni membri di questa pseudo o presunta comunità-setta stanno provando a elaborare, con l'aiuto di quanti siano disponibili, meccanismi e strumenti (aggregatori, trackback et similia) di utilità generale in rete, quindi non solo ad usum bloggorum, che nessun altro pseudo o presunto gruppo (giornali, siti commerciali, siti industriali, ecc.) ha mai pensato neanche lontanamente di fare. E senza alcuna presunzione o supponenza.

Tanto per essere impopolare fino in fondo, comincio a non accettare più questo eterno confronto (in perdita, per noi) con i mostri americani o stranieri. Leggo ovunque che i blogger americani fanno tendenza, fanno opinione, fanno giornalismo. E poco più avanti leggo: "quanti blogger italiani che si vantano di essere o di sentirsi giornalisti hanno prodotto finora una notizia?" Rispondo con una domanda: ditemi quanti, se non in ambito tecnico e in altri rarissimi casi che si contano sulle dita di una mano, lo hanno fatto realmente finora negli Stati Uniti. Quali blogger-giornalisti si sono realmente affermati negli ultimi tempi. Andrew Sullivan? Ma Sullivan è un giornalista che da anni lavora per una testata main stream e ha trasformato il suo blog in un'attività di free lance. Bene, chiedete ai free lance italiani quale considerazione e trattamento ricevano dai giornali e dalle istituzioni giornalistiche del nostro Paese; chiedete loro da quanti anni stanno combattendo per essere riconosciuti come entità, degna di un trattamento contrattuale, previdenziale, ecc., anche solo lontanamente equiparato a quello dei giornalisti garantiti dal Contratto Nazionale di Lavoro.

Ancora oltre leggo che l'esempio più classico di questi blog giornalistici o comunque di grande rilevanza, che in Italia ci si sogna, è quello celebre iracheno, ora assorbito dal Guardian. Anch'io l'ho segnalato e linkato durante la guerra dopo averlo frequentato per qualche giorno e aver trovato prezioso materiale umano sulla vita sotto le bombe, senza elettricità e in cerca di un filone di pane. Oggi sono tornato sul sito del Guardian per dare una sbirciata. Questo è il risultato, nel giorno della conferenza stampa sull'insediamento del nuovo governo.

Ditemi voi dov'è la notizia. Questo è un post di sensazioni, emozioni, opinioni, descrizioni di dettagli che i giornalisti internazionali in effetti non riescono a riportare dovendo raccontare i macroeventi della guerra e della politica. Sono trascritti la sensazione di un tassista, il trattamento ricevuto dalla security durante una conferenza stampa, la scelta di partecipare sia alla manifestazione dei monarchici sia a quella dei comunisti: "non per politica", spiega, "ma per poter esprimere quello che non si è potuto dire per decenni". Esattamente la stessa vita minima che alcuni dei blogger italiani riportano sui propri siti, ma che viene giudicata puro esercizio narcisistico. La differenza? Sta nel luogo da dove il blog iracheno viene scritto e nella situazione che lì si evolve giorno per giorno. Nel contesto, insomma, e nella capacità di questo di storicizzare l'esistenza di un singolo e di darle valore assoluto di testimonianza. Come se vivere la propria vita minima sotto Berlusconi non fosse sufficientemente storia. Come se la storia non fosse anche la somma di vite minime.

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14.7.03

Cosa resterà?

A proposito dei rapporti tra blog e giornalismo, credo che il precedente intervento, Bellezza vo cercando, sia un buon esempio di cattivo giornalismo. Ho scritto cose non corrette, a causa di superficialità e anche di cattiva informazione alla fonte; ho espresso giudizi soltanto per sentito dire (e a Spoleto si sente dire sempre molto...); non ho verificato alcune situazioni sulle quali mi sono espresso con eccessiva sicurezza.

Così, la chiusura del Festival dei due mondi, sancita dalla diretta televisiva di ieri sera su Rai 2, mi consente di fare alcune precisazioni, di raccontare altro ancora e di esprimere nuove valutazioni.


Penso di aver assistito a una delle edizioni di livello più scarso della storia del Festival. I ragazzi della Juilliard, la celebre scuola d'arte di New York, sono molto interessanti, già professionisti di livello internazionale a 24-25 anni, un'eta nella quale in Italia si comincia appena ad affacciarsi in qualche cartellone di provincia, spesso da solisti. Ma certo non sono i Berliner o i Wiener. E Riccardo Frizza, il direttore del Lohengrin, non è Zubin Metha. Dunque, non si spiegano i 200 euro richiesti per un biglietto della prima dell'opera: allo stesso prezzo, a Salisburgo, si possono sentire orchestre e direttori straordinari. Tanto più se, com'è accaduto, un cantante (Lucio Gallo) ha un'improvvisa tracheite e recita in playback (con un altro, al lato del palco, che gli offriva la voce) per due dei tre atti della rappresentazione.

Alla Juilliard è stato comunque assegnato il premio Pegaso, offerto dalla Exxon (uno dei tanti sponsor importanti del Festival, dove si viaggiava in Jaguar...). Storicamente, il premio è attribuito al singolo artista "nuovo" che si sia distinto durante il festival: i 110 membri-studenti dell'orchestra (provenienti da 7 Paesi diversi) erano tutti meritevoli. Sia nell'orchestra, sia nei piccoli gruppi da camera protagonisti dei concerti jazz e dei concerti classici di mezzogiorno, hanno rivelato talento, musicalità e soprattutto un gran senso d'assieme: quello che fa un gruppo.

A differenza di quanto ho scritto nell'intervento precedente, la Juilliard non aveva nulla a che fare con il café chantant, in effeti affidato a un gruppetto tristo e modesto (nulla di artistico, soprattutto il clarinettista comicamente incapace che sembrava fosse appena uscito da un film di Buster Keaton) che generalmente si esibisce in crociere, convention, ecc. Ho potuto verificarlo solo andando a vedere, quindi dopo aver pagato 10 euro l'ingresso in una terrazza molto bella ai piedi del Duomo: in realtà, sarei potuto entrare gratuitamente e, come hanno fatto alcuni simpatici scrocconi romani, usufruire anche dell'aperitivo per il quale di fatto si pagava il biglietto.

I giornali locali (che hanno dedicato poco spazio, usandolo male) hanno criticato pesantemente l'organizzazione e gli spettacoli. Ma sembra che questo faccia parte di una guerra in atto da alcuni anni con Francis Menotti, a cui il vecchio padre ha fatto chiaro cenno introducendo il penultimo concerto di mezzogiorno. "Abbiamo bisogno di amici", ha detto, "che sostengano le nostre scelte e ci aiutino a valorizzare i giovani talenti che vogliamo continuare a scoprire. Ne abbiamo bisogno perché siamo circondati da nemici cattivi e pericolosi". Il riferimento inevitabile è alla politica e al tentativo di affossare il Festival o di impossessarsene per farne cassa di risonanza per le elezioni amministrative del 2004.

Di fatto, Menotti ha ammesso che l'organizzazione è stata scadente. I libretti, ad esempio, non erano relativi ai singoli spettacoli, ma a gruppi per affinità, quindi: Concerti, Danza, Teatro, ecc. Il concerto finale prevedeva la partecipazione di Samuel Ramey, ma non ho visto un solo comunicato nei vari box offices che ho frequentato sul suo forfeit (ha avuto un figlio di recente e ha pensato di cantare solo per lui, per un po') e tuttora nel sito ufficiale non ce n'è traccia. I programmi dei concerti di mezzogiorno venivano trascritti qualche minuto prima dell'apertura del Teatro Caio Melisso su una lavagnetta e poi declamati in sala da una presentatrice che sembrava ogni giorno (per tre settimane di fila!) catapulta lì per caso.

Detto della Juilliard (da segnalare un eccellente "Settimino" di Ravel, con un'arpista deliziosa e un'oratorio di Britten, su versi celebri, con un minimo di azione scenica - luci colorate e piccolissime trovate teatrali - e un bravissimo tenore venticinquenne con capelli punk), mi è piaciuta molto l'American Dance Company in tre pezzi di Twyla Tharp, tra i quali "The fugue" che nel 1970 aprì una nuova epoca per la danza moderna.

Ciò nonostante, la magìa non si è comunque dissolta. Anzi, è stata alimentata dagli incontri casuali e continui con alcuni dei protagonisti del Festival per strada, al bar o al ristorante. Da Enrico Lo Verso, protagonista di un testo nuovo, "L'odore", anche questo abbastanza criticato, al direttore del concerto di chiusura in piazza Duomo, James Conlon, il classico americano con scarpa bianca e figlia-zanzarina petulante con visiera anti-sole. Dallo scatenato gruppo delle trombe (che si sono vestiti perfino da paggi rinascimentali per annunciare la premiazione della loro scuola!) della Juilliard agli attori e ai registi che hanno transitato nella speranza di assistere a qualcosa di nuovo.

Ora, anche su questo si può discutere. Spesso il nuovo è sinonimo di eccessivo, trasgressivo, stupefacente a tutti i costi e quindi inutilmente incomprensibile. E' stato piacevole ritrovare una lingua facile e vicina nelle coreografie della Tharp o nel pezzo per due trombe di Reynolds, ma forse qualcosa in più sarebbe stato interessante. Sarebbe almeno stato un segno di vitalità da parte di un'istituzione che in molti danno per agonizzante.

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10.7.03

Bellezza vo cercando

L'idea era quella di imparare qualcosa pendolando tra Aix e Avignone, musica e teatro, Berg e Wolf, Boulez e Chereau. E' che ci si droga di cinema tutto l'anno, così ogni tanto viene da entrare in clinica per dinistossicarsi, all'ombra di un'intelligenza diversa, antica, in un certo senso postuma. E in quanto a cliniche di quel tipo, qui c'è il top. Medici straordinari, cucina raffinata e molto dietetica. Risultati garantiti.
Quando non ne puoi più fai finta di perderrti in campagna e finisci in quel buco spaziotemporale che è la Francia di provincia, dove tutto si è fermato, al bar bevono Pernod, ala tele c'è Tintin, al muro c'è Fernandel che ride da decine di anni, e il 14 luglio il sindaco offre la cena a tutti. Dopo, bocce. Ogni tanto passa il Tour.

Non amo Baricco e una delle mie regole professionali è quella di non cominciare mai un pezzo con un virgolettato (questo è apparso in prima pagina, oggi, sulla Repubblica). Ma come si fa, quando per una volta Baricco torna quello di tanti anni fa (niente infingimenti né simulazioni, carne fresca tritata dal cervello. Lo scrive lui stesso, inconsapevolmente e forse neanche tanto, più avanti nell'articolo a proposito della musica di de Falla: "Eleganza, mestiere, ironia divertita, non simulata. Qualcosa di vero, non solo giochetti, se capite cosa voglio dire") e rappresenta esattamente quello che sto vivendo in queste ore a Spoleto?!

L'aria dei festival mi è sempre piaciuta. C'è un divertimento comune, un filo che lega musicisti, attori e spettatori. Ed è quel divertimento che riesce perfino a profumare l'aria, a dare a qualsiasi scorcio di una città un'atmosfera rarefatta, da cinema vivente. Provate a immaginare la famosa piazza Duomo di Spoleto che appare all'improvviso dietro un fastidioso labirinto di quinte di legno, metteteci una giornata di sole e una colonna sonora (mandolini e viole d'amore) da "Vacanze romane" e la magia è compiuta.

Questa magia riesce a far passare in secondo piano il fatto che il festival di Spoleto non sia più all'avanguardia. Che l'unica vera trasgressione sia la presentazione in Italia delle manie norvegesi di Odd Nerdrum (gli ermafroditi, le polle d'acqua in paesaggi desolate, i kalashnikov accanto a figure che rileggono in chiave fortemente contemporanea il figurativo classico del Seicento). Che i musicisti della Juilliard passino senza soluzione di continuità dalla musica da camera al cafè chantant, attraverso il jazz spiegato da Marsalis. Che il Lohengrin di Giancarlo Menotti non dica niente di nuovo. E che tutti gli "altri" artisti della zona ormai mal sopportino l'egemonia di Menotti jr. che è comunque riuscito a garantire sponsor importanti malgrado la congiuntura sfavorevole.

Ma a me basta quell'aria, quella magia. E la cucina di qui: altro che quella raffinata e dietetica della Francia di Baricco. La provincia italiana conserva tradizioni e braci ardenti, camini sempre accesi e miracoli della natura come il tartufo estivo (giuro che esiste!). Basta questo per avere la sensazione di raggiungere la bellezza, di toccarla, di avere la prova reale e concreta della sua esistenza.

Quella bellezza che, diceva Peppino Impastato nei Cento passi, il film di Marco Tullio Giordana, "si dovrebbe insegnare alla gente. La bellezza contro la cupidigia, la bellezza contro l'omertà, la bellezza contro la rassegnazione, la bellezza contro la paura". La bellezza che arriva in un attimo e concede pace anche agli animi più inquieti.

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9.7.03

E se c'ero, dormivo

Ho conosciuto qualche mese fa una giornalista che, sia pure con dolcezza, si vantava di aver coniato la definizione di fuffa blog. Brava, le ho detto, carina, mentre mi scorreva un rivolo di veleno dal canino. Non contenta, in quella occasione ha preconizzato la fine del fenomeno blog nel giro di un anno (mangiamo sì e no la colomba). "Non avete più niente da dire", diceva, "vi siete stancati, lo slancio iniziale si è esaurito. In fondo, che cosa avete mai detto di così importante?".

Ebbene sì, andando di questo passo, ci prenderanno per sfinimento (come mi fa temere anche compare Mantellini). Intendo noi dell'elite, noi egemoni, noi pionieri che facciamo il potere. Ma sì, noi mafiosi della cupola della S.B.U., la Sacra Bloggheria Unita. Chiuderemo presto: per rosolamento di attributi.

A meno che non troveremo ogni volta qualche bravo picciotto, come B. George, che con poche mirabili frasi ci tirerà un po' su, difendendo l'affermazione della grande rete-coppola . Baciamo le mani!


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8.7.03

Alter ego digitali

Qualche appunto volante, non ancora il ritorno ufficiale. Troppe cose mi sono rimaste nella testa dalle giornata di Viterbo e tante altre ne ho messe da parte in una settimana intensa di lettura di archivio.

Comincio da Viterbo, in particolare dalla cena e dai numerosi momenti estremamente positivi di conoscenza, confronto e dialogo che hanno sostenuto il convegno vero e proprio. Attorno a un tavolo affollato, ricordo che Giuseppe Granieri mi aveva parlato di un uso molto pratico che faceva del proprio blog. In estrema sintesi, specie nei mesi iniziali, Blog Notes gli era servito anche come raccoglitore digitale di appunti, che altrimenti sarebbero andati dispersi: una sorta di Moleskine on line, disponibile però per il pubblico, per discuterne polemizzare o trovare punti di contatto con un numero teoricamente illimitato di "altri", o semplicemente per tenere una traccia visibile di un percorso individuale, umano e intellettuale.

Anche per me, nei primi tempi, il blog ha avuto una funzione simile. E con il passare del tempo, si è ulteriormente perfezionato e approfondito, trasformandosi da Moleskine in vero e proprio giornale personale, sul quale appuntare critiche, recensioni, citazioni e momenti di riflessione collettiva. Oggi, per me, Fuori dal coro è soprattutto questo: la mia ombra in rete, una sorta di alter ego digitale, una lavagna intima en plen air dalla quale chi, più o meno bene intenzionato, volesse studiare i miei comportamenti potrebbe trarre materiale determinante.

Pensavo di aver trovato finalmente una buona definizione, quando mi sono imbattuto in una delle perle di Anna Masera su Ttl de La Stampa. Sabato 14 giugno '03: "Sdoppiarsi con Digital Self / il tuo alter ego in rete". Si narra di Andrea Granelli, 43 anni, dall'alba di Internet in Italia coinvolto nei nuovi media e ora responsabule ricerca e sviluppo di Telecom Italia, incidentalmente figlio del senatore ex Dc Luigi Granelli. E del suo sito personale, basato su questi concetti:
Secondo Granelli, il vero impatto del Web sta nella creazione di un nuovo "sé" potenziato, ubicato nella rete. E lo dimostra cliccando sul suo sito: lui, la sua identtà digitale se l'è costruita online con metodo e rigore da quando Internet è sbarcata in Italia.

Bene, Granelli sarà pure molto più avanti di tutti essendosi svegliato con Internet ma resta all'abc nelle proprie cose (un po' di sano minimalismo forse non guasta). Eppure non fa altro che utilizzare la rete per raccogliere i propri appunti ed averli disponibili dovunque si trovi. Insomma, a me quel sito sembra una forma molto elementare o al contrario molto elaborata di weblogging, comunque a esso profondamente connaturata. Alla Masera, no. Anzi, Annarella trova il modo di chiudere con una tiratina moralistica, tanto per cambiare anti-blog.
Così, grazie al suo sito personale, Granelli ha il suo doppio in rete: lì ci archivia tutta la sua vita,, i suoi interessi, i suoi studi, i suoi ricordi, la sua memoria. Le cose più interessanti le tiene sotto chiave (vi si accede solo tramite password): perché lo scopo non è farsi vedere - che invece sembra essere lo scopo principale dei blog - ma utilizzare Internet per poter sempre accedere ai propri dati, da dovunque, in qualsiasi momento.

Qualcuno mi spieghi: cosa avete fatto alla Masera?

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Che te lo dico a ffa'?

Alle 11.40 mi sono piazzato davanti alla radio, pronto a prendere (more solito) appunti da girare in rete sul modo in cui il Comunicattivo, trasmissione di RadioUno, avrebbe trattato i weblog. E invece Igor Righetti, questo il nome dell'ideatore e conduttore del programma, ha annunciato all'improvviso tutt'altro tema (il boom delle iscrizioni alle facoltà di Scienze della Comunicazione) guardandosi bene dallo scusarsi per il cambiamento con quei quattro polli che stavano aspettando. In realtà, ne ha accennato alla fine della puntata: per comunicare che i blog saranno l'argomento... di domani.

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I comunicattivi

Onestamente, pensavo che, vista la quantità industriale di fesserie e marchette (vedi il riferimento ai blog dell'Espresso), l'articolo di Laura Kiss su Affari e Finanza, segnalato da Cesare Lamanna e Massimo Mantellini non meritasse nemmeno menzione. Allora si faccia attenzione alle 11.40 di martedì 8. Su RadioUno, si parlerà di weblog in Comunicattivo: che cosa sono, a cosa servono, perché si scrivono. Sono sicuro che si farà finalmente chiarezza: la trasmissione dura 15 minuti!

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