Elaborazione grafica di Guido Nestola

30.9.03

L'Inferno della curiosità

C'era un centinaio di persone anche stasera fuori da Santa Maria delle Grazie. Aspettavano che Vittorio Sermonti cominciasse la lettura dell'Inferno della Divina Commedia: secondo i calcoli, dovrebbe essere arrivato al canto XII. Io ho ascoltato il II: mi sono messo in fila, alle 20.20, quando la coda era già composta da alcune centinaia di persone; alle 20.30 sono entrato nella Basilica e ho trovato posto in terz'ultima fila.

Confesso di esserci andato anche per curiosità, per "respirare l'aria", per capire la logica sottesa al fenomeno. E il fatto che, appunto, anche oggi alcuni non abbiano trovato posto dentro la Chiesa indica che il fenomeno non era solo momentaneo, trendy, di pura immagine. Ho visto uomini e donne, anziani e giovani, con vecchie e nuove edizioni della Commedia, seguire passo per passo, sottolineare, annotare. Un paio di signori, per annullare l'eco delle navate, hanno letteralmente incollato le orecchie agli altoparlanti e annuivano. Uno ha passeggiato tutto il tempo, in mezzo alle file di sedie e banchi, fermandosi spesso a pochi passi da Sermonti e poi tornando indietro, braccia incrociate dietro la schiena, sguardo assorto, senza che nessuno gli facesse caso.

Dunque, non un fatto effimero, ma come ha scritto Paolo Di Stefano sul Corriere della sera del 17 settembre:
C'è voglia di fare uno sforzo per capire, purché ne valga la pena. C'è voglia di ammirazione per signori che stimiamo, perché hanno studiato, hanno riflettuto e la sanno più lunga di noi. Non perché ci impongano il loro pensiero, ma perché ce lo propongono.


C'è, insomma, la voglia di farsi stupire, di soddisfare la propria curiosità intellettuale con quell'entusiasmo magico e ammirato di cui parla Giuseppe Montesano in un racconto pubblicato sul sito di Feltrinelli che trovo affascinante nella sua semplicità infantile:
E so che è possibile sfuggire al dejà vu, ma solo attraverso un'arte del conoscere attraverso i sensi, un'arte che si impara come si impara a sentire e capire un buon vino: l'arte della curiosità. È lei che ci fa vagabondare da bambini tra le immagini di atlanti e enciclopedie, e ci mostra da adulti che nel mondo ci sono gli altri, i diversi da noi; è lei che ci concede di fare della vita una continua scoperta, di vedere le cose nella loro novità e di non affogare nella noia della ripetizione; ed è sempre lei che ci spinge alla passione per le differenze e agli incroci tra le culture. E che vita povera è quella che non conosce l'arte della curiosità!

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A reti unificate

tratta da www.mantellini.itHo ospiti a casa all'ora dell'aperitivo. Si chiacchiera, mentre scrivo le ultime righe. Attorno alle 20.40, usciamo per raggiungere un ristorante dove avevo prenotato un tavolo. La cena è discreta, plastificata, anonima e insapore, in perfetto stile milanese. Rientriamo e accendo la tv. In pochi minuti precipito nella normalità.

Seguo un dibattito a Porta a porta sul blackout. Si parla di tutto, senza che un partecipante risponda mai alle riserve del suo interlocutore. Il dialogo-tipo è il seguente:
D - Perché le mele costano 1000 lire al chilo?
R - Le pere sono raccolte in val Venosta.
D - Ma avevate detto che non avreste più sparso veleno sulle coltivazioni di fragole.
R - Falso, abbiamo comprato i camion per l'uva.

Poi un Costanzo Show sul blackout, gli anziani morti in estate, gli eremiti che raccolgono i cartoni per strada e non se ne fregano dell'elettricità.

Infine, scopro che il presidente del Consiglio ha parlato alla nazione, a reti unificate, per illustrare la riforma delle pensioni che non ha ancora illustrato ai sindacati. E ha chiesto che la gente continui a votarlo, perchè lo Stato non potrà garantire le pensioni e non importa se due anni e mezzo fa si è fatto eleggere promettendo più pensioni per tutti.
A reti unificate! La cosa che mi turba non è tanto che l'abbia fatto mentre ero a cena, in fondo ci può stare. Ma che nel frattempo non abbia detto una sola parola, magari anche a radio spente, su un Pase lasciato al buio per 12 ore.

Sono questi i momenti in cui mi chiedo perché devo rientrare ogni volta da un viaggio di lavoro.

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27.9.03

Buongiorno, notte

Appena rientrato in Italia, ho voluto vedere subito Buongiorno, notte - il film di Marco Bellocchio sul caso Moro. In pochi giorni, ho raccolto tutto quello che mi interessava leggere sull'argomento, da Venezia in poi, e sono partito per il cinema con un sentimento strano, controverso.

Speravo, da un lato, che il film placasse le polemiche scatenate più o meno ad arte, anche (come spesso accade) da parte di chi non ha neanche fatto come me, ma ha giudicato per sentito dire. Dall'altro, ero in qualche maniera rassegnato al fallimento, all'idea cioé di dover ammettere che le velleità di Bellocchio fossero superiori alla resa. Il risultato si è stabilito a metà fra l'una e l'altra condizione. Diciamo pure: tendente al bello. Per un motivo semplice: perché era un film di Bellocchio. Bastava tenerne conto per non crearsi false illusioni e per accettare la sua arte per quella che è.

C'erano le emozioni, i sogni soprattutto. Bellocchio ha compiuto una lettura profonda, intima e intimista, di alcuni personaggi della vicenda, a cominciare proprio da Moro. Mio padre, che lo aveva affrontato come avversario politico in provincia di Bari, me lo raccontava esattamente così. Un Dottor Sottile; uno stratega raffinato dell'eloquio e della sublimazione del pensare politico; un uomo in grado di mantenere il controllo totale dei nervi, perfino di concedersi all'ironia, anche nei momenti più drammatici.

Ricordando le apparizioni improvvise della bella insegnante nell'Ora di religione, sapevo di non dovermi aspettare una rielaborazione storica o politica dei fatti, tantomeno una elaborazione ultimativa di certi fenomeni, ma uno scavo psicanalitico (eloquente il coro dei vecchi comunisti, più da Terza Internazionale che da Partigiani Azionisti), un'analisi estremamente personale e originale dei protagonisti. E così è stato. Il sogno (in tutti i sensi) liberatorio della giovane terrorista (nella realtà, Anna Laura Braghetti, che nell'80, dopo quel rapimento, uccise anche Vittorio Bachelet) non è una visione indulgente nei confronti delle Br, ma solo una rappresentazione possibile di quello che si suppone esistesse dietro la cortina della disumanità delirante dei loro documenti o degli omicidi a sangue freddo, ma è rimasto represso, senza via d'uscita, come scrive Wanda Marra.

A mio avviso, un segnale importante e nuovo, che la stessa Braghetti ha sottolineato in un'intervista al Corriere della sera del 6 settembre:
Sono colpita dalle reazioni della stampa e dei commentatori a questo film. Fino a ieri non si poteva parlare del caso Moro senza nominare i "misteri", oggi non vi si fa pure cenno. E sembrava anche molto difficile che gli artisti, gli intellettuali italiani riuscissero a rielaborare, ripercorrere la storia del nostro Paese con film, libri, non solo con saggi politici. Invece ecco, esce il film di Bellocchio, esce il film di Bertolucci sul '68, la gente fa la fila per vedere La meglio gioventù di Giordana.


Basterebbe questo, secondo me, per mettere a tacere anche le polemicucce di cortile su quanto sia poco esportabile certo nostro cinema di qualità. Una lettura del genere, che prende spunto in realtà dal grande fatto di cronaca per sviluppare un'analisi più ampia e ben poco singolare, esce d'obbligo dai nostri confini e anzi forse aiuta a capire ciò che nemmeno noi siamo ancora riusciti o abbiamo voluto capire.

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26.9.03

Plastica

Sono stato a Disneyland. Non dentro, tutto attorno. Ho visto camionate di turisti che facevano la fila per organizzare giornate di giochi; ho frequentato negozi pieni di commessi che non avevano idea di cosa stessero vendendo; ho usufruito di servizi creati appositamente per quell'industria del divertimento, ogni secondo una parte di dollaro. Ma quel diverimento mi è sembrato assai poco concreto e reale, bensì quasi obbligato. Insomma, ho avuto la sensazione di un luogo di plastica, in cui ci si può muovere solo con grandi jeep dotate di aria condizionata e c'è una (falsa) buona parola per chiunque di cui nessuno si interessa in verità.

Quando sono tornato in Italia, ho sfogliato un settimanale e in un'intervista con Ha Jin, un cino-americano autore di Pazzia, un romanzo pubblicato da Neri Pozza, ho trovato queste frasi:
Gli chiediamo qual è stata la sua prima impressione dell'America.
Sorride: "L'odore, l'odore dell'aria. Voi non ci fate caso, ma è un odore artificiale, come un profumo. Mi diede il voltastomaco. Conosco asiatici che hanno vomitato per settimane appena arrivati qui"

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Scrivo, dunque esisto

Forse sto ricominciando a respirare. Forse sto riuscendo a evitare quella sensazione di angoscia e di soffocamento che mi ha preso nelle ultime due-tre settimane. Il motivo principale? Il lavoro. Le palle rotolanti e gli omoni che ho seguito in giro per l'Italia e per l'Europa e che mi hanno tolto l'aria, la luce, mi hanno strappato le pagine dei libri e dei giornali che ho impilato prima di partire.

Strappato è il verbo giusto. Da più di un mese non leggo nulla di continuativo. Rubo qua e là, di rincorsa, senza grande costrutto. In certi momenti, la lettura non mi sembra più tanto un piacere, quanto una conquista.

Ho le mani gonfie per le ore trascorse intinterrottamente a pigiare su una tastiera giudizi e frasi fatte. Lascerò che si decongestionino un po', così come la mente, per provare a riprendere, quanto per ritrovare il gusto di ragionare in pubblico. Di sicuro, non farò come certi ragazzini che ho visto giocare su un campo della Toscana: hanno dato più calci di rabbia ai cartelloni pubblicitari davanti alle panchine di quanti canestri abbiano segnato. Vittime di certe immagini televisive in cui gli sportivi sono attori prima che uomini: sbattono, urlano e si disperano, sembrano angosciati, appunto, da un'angoscia che non esiste.


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11.9.03

Una rosa per Anna

Due lunghe file invadono la strada. Gente comune, composta, silenziosa. Tante ragazze, alcune signore con bei capelli bianchi e dolci mani piene di vita. Aspettano il proprio turno, per lasciare una rosa o un fiore su un cumulo già alto di fiori rossi, per accendere una candela; per scrivere poche frasi su un grande quaderno appoggiato per terra o in calce a un manifestino verde sul quale qualcuno, con un pennarello nero, ha dedicato per primo questo pensiero:
Desistere significa morire davvero. Io non lo faccio, Anna

Era così, stamattina, davanti al grande magazzino nel centro di Stoccolma dove ieri pomeriggio è stata uccisa Anna Lindh, ministro degli esteri svedese, sorridente e convinta attivista del "Sì all'Euro" per il referendum di domenica. Mi sono fermato in mezzo a quella gente; ho guardato nei loro occhi una tristezza civile, intima eppure molto pubblica; ho provato la netta sensazione che fosse stata accoltellata una di loro, fosse stata uccisa una parte di loro.

A pochi metri di distanza, sul lato di una pensilina degli autobus, il volto della Lindh campeggiava sorridente e fiero, con la mano destra aperta verso chi l'osservava. Su quella mano, e su tante altre sparse nel centro della città, una rosa era stata attaccata con un filo di nastro adesivo. Per non desistere.

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6.9.03

Giù al Nord

Qualcuno è andato sulla linea del Circolo Polare Artico. Circa 150 chilometri per andare e altri 150 per tornare. E' sceso dalla macchina per farsi fotografare sotto il cartellone e comprare un simil diploma. Io ho rinunciato. Mi ero commosso già l'altra notte alzando lo sguardo all'improvviso verso un cielo limpido e guardando l'aurora boreale. Un fenomeno unico, straordinario. La natura che mi circonda. Io dentro il mondo. Piccolo nell'enormità.

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5.9.03

Rosa sanning

Non sempre mi rendo conto di quanto significhino in giro per il mondo sportivo le tre parole Gazzetta-dello-sport. Mi sfugge talvolta che, per molti, quelle tre parole sono la bibbia, l'enciclopedia, la leggenda, la perfezione, la precisione assoluta. Poi mi capita di arrivare, con una quindicina di altri giornalisti italiani, in Svezia per seguire un campionato europeo e di essere atteso da un collega del posto. A lui del basket interessa poco: vuole invece raccontare chi è la Gazzetta-dello-sport, chi è una delle facce che le stanno dietro, i numeri che la fanno uscire tutti i giorni, il colore della carta, la tradizione e la novità, il monopolio del calcio, i quattro inviati sul Milan, i tre sulla Juventus.

Il risultato è questo: un articolo che parte dalla prima pagina di un quotidiano del Nord. Con foto a colori (per fortuna non pubblicata anche online) del sottoscritto, un attore vero che fa finta di leggere il giornale.

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Wireless forever

Il palasport di Lulea è in mezzo alla campagna del Nord della Svezia. Eppure arriva fino a qui la rete wireless che serve tutta la città. Inserisco la scheda nel mio pc portatile, lascio che si ambienti nel suo slot e oplà! Un addetto alle tecnologie (!) dell'organizzazione dei campionati europei di basket mi consegna una card dalla quale devo "grattare" username e password. La card è gratuita, vale 24 ore. Domani me ne darà un'altra. Essere all'avanguardia, da queste parti, non è un modo di dire.

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Scaffali per un suicidio

Cittadina del Nord della Svezia, 60mila abitanti, molti ragazzi che alle 10 del giovedì sera sono ubriachi da star male. Attorno, acqua, alberi, poche automobili, un paesaggio che spinge al suicidio. Dentro, alberghi spartani con bagni interamente foderati in linoleum; stanzine con muri divisori di carta velina ricoperti da parati con disegni intrecciati. Eppure nell'ingresso di ogni albergo (hall è una parola grossa), accanto al banco del ricevimento, c'è un espositore di libri tascabili in vendita. E in fondo al corridoio di ogni piano, quattro scaffali e una quarantina di libri, solo in svedese: Kertesz, Maugham, una Lidia Ravera del '78, Durenmatt, Noteboom. Non una sola copia di Stephen King.

Bello, bellissimo, invidiabile. Quale hotel italiano va oltre l'Antico Testamento nascosto in un cassetto puzzolente (per non dire di quelli spagnoli della catena NH che addirittura pubblicano una raccolta di racconti per la notte, da scegliere fra diversi tipi, a seconda del sonno che si vuole conciliare)? Ma forse un po' di svago in più, in un luogo che per natura non offre tanto, potrebbe aiutare a distruggere qualche vita in meno.

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4.9.03

Il miracolo

Ora io non so se se la concorrenza sia tale, da poter prevedere, come ha fatto il quotidiano argentino La Nacion, un Leone d'oro alla Biennale di Venezia per Il Miracolo. A me, però, il nuovo film di Edoardo Winspeare (già autore di un intenso Sangue vivo e della rivelazione Pizzica) è piaciuto. E non solo per una partigianeria diciamo geografica, il regista essendo salentino, in particolare di un curioso borgo dal nome ancora più curioso: Depressa.

La poesia dei cieli di Taranto e dei silenzi dei personaggi rende molto bene la disgregazione dei rapporti, la solitudine di fronte ai casi (spesso dolorosi) della vita, la necessità di dare amore per riceverne e molto spesso rimanere delusi dall'attesa. Il tutto con una notevole misura, soprattutto se si tiene conto del fatto che gli attori non sono professionisti e che il protagonista principale, Tonio, è un ragazzino di 11 anni.

Il miracolo in sé e per sé, alla fine, non è altro che credenza, desiderio di fede, o alla peggio opportunismo, senza differenza fra Nord e Sud. Ma il vero miracolo è l'esistenza di qualcuno che si occupi di noi o che ci chieda col suo sguardo disperato e triste di farlo per lui.

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3.9.03

Scrivere oltre i confini

Si scrive per rompere i propri confini, per trovare se stessi nei personaggi di cui si racconta. Non è un'idea nuova e David Grossman, scrittore israeliano ospite del Festival della letteratura di Mantova, non la rivela per la prima volta, ma è sempre utile ripassarla su L'Espresso del 28 agosto:
Il cuore della scrittura è concentrato nel desiderio di rompere barriere, confini. In genere, nella nostra vita, ma anche in Italia, viviamo protetti dagli altri. Persino con i nostri migliori amici, o con il nostro coniuge, abbiamo l'istinto di non esporre non stessi in maniera totale di fronte a un altro essere umano.
La gente ha paura di esporre se stessa all'inferno che c'è nell'altro di fronte a sé. Scrivere, invece, va nella direzione opposta. Rompe tutti i confini.
Quando scrivi, capisci subito che qualsiasi tipo di persona di cui sei curioso di scrivere è dentro te stesso. In un certo senso, non è uno sforzo. Anzi, al contrario. Non si va a catturare qualcosa, ma si abbassano le difese tanto da perdersi. E subito posso scrivere. Ed essere un individuo che non avrei potuto essere nella vita.

Il figlio della sposaIl confine da superare, insomma, è quello della menzogna che spesso diciamo a noi stessi prima ancora che agli altri. E' l'incapacità, la mancanza di coraggio, la scarsa abitudine di riconoscere ciò che siamo profondamente, di metterci in gioco, di rivelare la nostra vera natura. E non sempre, come invece accade in un bel film che ho visto qualche giorno fa (Il figlio della sposa, Oscar 2002 per il miglior film straniero), abbiamo la possibilità (o siamo sollecitati a farlo da qualcuno che sia importante per noi) di accorgercene e di redimerci, di cambiare sistema di vita e relazioni, di scoprirci e accettare i nostri sentimenti, le nostre debolezze ma anche le nostre qualità, quelle che forse fanno più paura. Talvolta anche di fronte a un romanzo, a un racconto oppure a un blog esistono confini troppo lontani e con troppo filo spinato attorno perché si possano superare con facilità.

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2.9.03

Tutti, tutti. Ci siamo proprio tutti

E così mentre Giulio Mozzi già si (fa) interroga(re) sulla durata di un blog, sulla prevedibile morte e sull'impossibilità dell'infinito, tutti gli altri sono ritornati. Non li spaventa un'estate, l'impossibilità o l'infinito.

Finché dura, dice. Ma noi, anche se non siamo scrittori patentati o filosofi laureati (beh, qualcuno c'è e si vede), ne abbiamo di cose da scrivere e da pensare. In Mediterraneo, Abatantuono diceva: "Ho troppe cose da fare, troppi progetti. E una vita è troppo poco". Dura, dura.

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Berlino era un po' triste, molto grande

C'è qualche motivo in più di quello descritto da Jeffrey Eugenides (che vive lì da quattro anni) per decidere di vivere a Berlino. Dice l'autore di Middlesex al Corriere della sera:
Gli scrittori americani negli Anni Venti andavano a Parigi perché costava poco e perché era la meta prediletta anche da molti artisti. Mi pare che questo valga oggi per Berlino, qui la vita è molto facile, ci si può preoccupare più del proprio lavoro creativo che del proprio conto in banca.

Nello scorso fine settimana, dopo aver visto anche il film Goodbye Lenin (voto: 7-, qualche lungaggine di troppo e un paio di pestatine sull'acceleratore dell'assurdo in una storia di per sé già molto paradossale), ho fatto un blitz da quelle parti per lavoro. Se non avessi dovuto seguire una ventina di uomini in calzoncini che saltavano e se le davano per mettere una palla in un canestro, e avessi voluto invece dedicarmi alla musica classica, nella giornata di sabato avrei potuto seguire (dell'elenco non fanno parte i famosi Berliner Philarmoniker perché non ho trovato il libro - di questo si tratta, in tutti gli altri casi - del calendario):
  • Concerto di apertura della stagione della Konzertaus della Berliner Sinfonie-Orchester diretta da Kurt Masur

  • Concerto della Deutsche Symphonie Orchester (direttore stabile Kent Nagano) diretto da Andrey Boreyko

  • La prima della Semiramide, di Gioacchini Rossini, con l'orchestra della Deutsche Oper diretta da Alberto Zedda

  • La prima della Traviata, di Giuseppe Verdi, alla Staatsoper, diretta da Daniel Barenboim (che si divide con la Chicago Symphony Orchestra), che ne è il direttore artistico


Ma così è ogni giorno, da qui a settembre dell'anno prossimo. Con iniziative speciali per bambini, giovani, anziani, abbonamenti ai concerti delle istituzioni principali, tutte unite appassionatamente, senza gelosie o assurdi dispetti. La Deutsche Symphonie ospita, tra i tanti, Ashkenazy, Pinnock, Volodos, Grimaud, Kotchinian, e dedica grande attenzione alla musica contemporanea, eseguendo anche compositori a cui ha commissionato dei brani sinfonici. L'orchestra della Radio di Berlino avrà tra gli altri la Zilberstein con Fruhbeck de Burgos, Kocsis, Marin ed Heinrich Schiff. Alla Staatsoper, l'equivalente della Scala, hanno inventato i concerti del brunch, naturalmente di domenica, e ospiteranno Serkin, Zukerman, Kremer, Waltraud Meier, Bolton.

Scrivendo questo elenco, mi è riaffiorata la sensazione di sgomento che avevo provato venerdì sera, passando per la Galleria a Milano. Al centro dell'Ottagono era stato piazzato un maxischermo davanti al quale un centinaio di persone aveva occupato tutte le sedioline disponibili per assistere a un vecchio balletto della Scala. Quella sera, il 30 agosto, a Milano non c'era niente dal vivo: chiusi i teatri, la Scala a pochi passi un cratere, e via così tristemente enumerando. Eppure la gente aveva voglia, bisogno, necessità di vedere, sentire, vivere un po' di cultura e di svago costruttivo.

Milano, la capitale morale. Milano, la città ricca per eccellenza.

Forse non necessariamente a Berlino (dove comunque esistono anche alcuni obbrobri, come l'enorme stand a forma di pallone piazzato davanti alla Porta di Brandeburgo per promuovere con qualche anno di anticipo i Mondiali di calcio che si svolgeranno da quelle parti), ma ci sarà pure qualche buon motivo per vivere altrove da qui.

Forse non necessariamente come a Berlino (dove hanno appena inaugurato un avveniristico Museo della Storia, realizzato dall'ottantaseienne architetto cinese Ieoh Ming Pei e costato 54 milioni di euro, giudicato dall'Espresso "una delle più belle e pure costruzioni mai realizzate da un architetto": un edificio modernissimo con un'enorme vetrata nella quale si riflette la Zeughaus, un edificio barocco color rosa, così assorbendolo ed evitato l'effetto pugno nello stomaco), ma ci sarà pure un modo per uscire dal torpore culturale nel quale qui siamo precipitati. Qui Milano, intendo, una ex grande città.

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