Elaborazione grafica di Guido Nestola

27.6.03

Liberiamo Adriano Sofri

Aderisco alla campagna dei blogger che chiedono la liberazione di Adriano Sofri.

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De sciou mast go on

Venerdì mattina, Internet point nel centro di Viterbo. Il giorno dopo lo showdown, sì insomma, il convegno universitario su Scrivere in rete: i weblog. La nostalgia affiora prepotente, specie davanti a una rete che va a spinta e con cinque minuti a disposizione prima del blackout annunciato. Nostalgia per i compagnucci con i quali si è discusso, parlato, raccontato, imparato. A loro e a Gino Roncaglia che ci ha fatto incontrare rivolgo un ringraziamento sincero.

Non so quanti di quelli che hanno partecipato alla giornata di studi commenteranno nei prossimi giorni quel che è accaduto. Chi lo farà, avrà un compito delicato: far sapere a molti ciò che solo pochi hanno detto e ascoltato (il pubblico non era molto numeroso, per non dire dei giornalisti...). Dovrà dunque superare un'altra prova sulle qualità dei bloggers: quella sull'obiettività.

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24.6.03

Grazie, anzi thank you

Dopo anni di dubbi, discussioni e argomentazioni, interminabili commissioni di ricerca e studi con campioni di carne umana durati alcuni mesi, finalmente Andrea Inglese fornisce una parola ultimativa sull'annosa questione dell'identità dei bloggers. Dopo di lui, sarà impossibile che altri possa azzardarsi a intervenire ancora: tutto quello che c'era da stabilire, definire, circoscrivere e affermare, è stato risolto in un post (dal titolo fin troppo eloquente: L’io in rete. Tra desiderio d’immortalità e spartizione del capitale simbolico) che definire totale suona quasi un'offesa.

Scrive Inglese (English writes):
E questo eludere il dolore, il proprio nervo scoperto, non pare consentire alla scrittura di superare la soglia di una ricreazione illimitata e, anzi, vieta ad essa l’ingresso nello spazio in cui le parole lottano pericolosamente con le nostre vite, alla ricerca di una chiarezza spesso sconsolante, e comunque difficile. Ed è certo un sintomo di cattiva letteratura, di letteratura mancata questo: la vita che scivola costantemente altrove, separandosi puntualmente dal nostro prendere la parola. Il divario esiste sempre, ma la letteratura nasce dall’esigenza di tagliare la strada alla vita, per itinerari avvolgenti e subdoli, o attraverso imboscate improvvise. Ciò che rende lo scritto di qualcuno socialmente prezioso, ossia letteratura, è la capacità di familiarizzarci con quella finitezza che religioni e filosofie hanno per secoli tentato di esorcizzare, sanare, redimere. Insomma, Scarpa ha ragione quando percepisce le scritture di rete una grande occasione mancata per indagare e mettere in forma il caos delle nostre vite.
Forse non è pertinente il termine che usa, quando parla di “rimozione”. La rimozione, per Freud, implica una mancata consapevolezza del lavoro di occultamento che la coscienza produce. Ma in questo caso, io parlerei di elusione, consapevole e attiva. C’è troppa realtà da tenere a bada in un’esistenza, troppe occasioni d’infelicità e dolore, troppa vergogna con cui avere a che fare, per passare ore del giorno e della notte a tirare i fili di tutti questi piccoli e grandi disastri. C’è quindi molto bisogno di oppio, di eroina, di anestetici vari, ma anche di eccitanti. Droga casalinga, artigianale, a buon mercato. Ogni riga scritta come una sottile pista da inalare. E nello stesso tempo, ogni riga, che magicamente diventa pubblica in tempo reale, solleva il frantume dell’io al cielo di un’immortalità passeggera.

Di questa nuova scimmia, scrive bene Zygmunt Bauman (da Medicina, informatica e vita eterna).
“Grazie all’infinita capacità e all’insaziabil appetito della memoria artificiale, oggi l’iscrizione nei sacri annali non è più un premio per le imprese personali di pochi eletti. Oggi ognuno ha una chance che il suo nome e le sue azioni vengano eternati nella memoria del computer (...). Per la stessa ragione, nessuno possiede la chance di conquistarsi un accesso privilegiato (che contraddistingua il possessore dal resto della gente), né tantomeno garantito, alla commemorazione perpetua. La fama, questa premonizione d’immortalità, è stata sostituita dalla notorietà, simbolo di transitorietà, di instabilità e di capriccio del destino. Se da un lato tutti possono trovarsi sotto le luci della ribalta, dall’altro nessuno può contare sul fatto di restare a lungo sulla scena; però nessuno va in depressione perché condannato a restare nelle le tenebre per l’eternità. Alla morte come evento unico, ineluttabile e irreversibile si è sostituito lo sparire di scena, evento sostanzialmente recuperabile e di per sé reversibile: i riflettori sono stati puntati in un’altra direzione, ma possono sempre tornare indietro. Gli scomparsi di vista sono temporaneamente assenti, ma non per sempre o in modo totale: tecnicamente sono presenti, anche se nascosti nei vasti magazzini della memoria artificiale, perché sempre pronti a risuscitare e a riemergere in qualunque momento.”


Per chi è ancora vivo, a sostegno di queste tesi, giungono altri due studiosi.
Kaspars Kambala, in "Omeopatia delle reti", afferma:
Мадридские власти не на шутку обеспокоены сохранностью фонтана Сибелес -- одной из самых эмблематических городских достопримечательностей, доминирующей на просторной площади неподалеку от Прадо. Она -- традиционное место празднования триумфов игроками и фанатами мадридского "Реала", и запряженной двумя львами колеснице помимо древнегреческой богини плодородия теперь каждый год приходится нести на себе груз целой футбольной команды и какого-нибудь очередного трофея. В ночь на понедельник пол-Мадрида (та половина, что не за "Атлетик") собралась у фонтана праздновать 29-ю победу "Реала" в чемпионате Испании.

Ma, ancora di più, è Dragomir Hiznjak, in uno dei saggi di riferimento, "Fenomenologia dei rapicauli - Per una teoria di internet impegnata a sostenere uno sviluppo insostenibile", a sottolineare:
Novinar Vjesnika Andrija Kačić-Karlin napisao je knjigu "Vatreni lakat", priču o 10 godina hrvatske nogometne reprezentacije, priču koju je ispričao Aljoša Asanović, strijelac prvog pogotka za Hrvatsku još 1990. godine. Knjiga je pisana u prvom licu, a sadrži 300 stranica s brojnim fotografijama, s opisom događaja prije, za vrijeme i poslije 80-ak nastupa "vatrenih" u posljednjih deset godina.

Vlastníci áut s nižším výkonom, ktorí by uvítali, keby systém určovania sadzieb povinného poistenia podľa kubatúry nahradil systém podľa výkonu, sa zmeny asi skoro nedočkajú. Prerokúvaná novela zákona o povinnom zmluvnom poistení zodpovednosti za škodu spôsobenú prevádzkou motorového vozidla síce umožní zmenu určovania sadzieb, ale poisťovne, aj Slovenská kancelária poistiteľov zatiaľ považujú kategorizáciu podľa kubatúry za najobjektívnejšiu. Podľa nich rok a pol trvania terajšieho systému poistenia je krátky čas na analýzu rizikovosti jednotlivých druhov áut.


Non a caso, prendendo sicuramente spunto da questi studi, Inglese conclude (English ends):
La scrittura in rete è innanzitutto un fenomeno sociale piuttosto che un’occasione decisiva di espressione individuale. Lo scrittore deve dunque stare nel flusso, ma con una certa noncuranza per ciò che avviene in esso. E questa non vuole essere una presa di posizione snobistica, ma semmai un principio precauzionale. Nella grande onda collettiva, il veleno dell’autore non deve rischiare di diluirsi.

"Tizianooo, t'aa sei messa a maja de lana? Co' tutti 'sti spifferi, immezzo a tutti 'sti blogghi, rischi di pijatte 'a pormonite. Vieni via da llì, nun te sporca' e mano. 'Nnamo che se fà tardi, bello de zzio".

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Commenti

Il gentile signor Haloscan ha pensato bene di lasciarmi in braghette di tela in questi giorni di infuocata discussione. Chi vuole intervenire, è pregato di farlo inviandomi una mail al seguente indirizzo: carlo.annese@rcm.inet.it. I messaggi che riceverò saranno pubblicati su questo blog. Grazie e scusate per il disagio.

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23.6.03

Le visioni del paradiso

Non amo le polemiche, ancora meno mi piace monopolizzare le discussioni. Al terzo botta-e-risposta, mi succede di chiedere scusa e di dire "Okay, finiamola qui", pur essendo convinto di non avere tutti i torti: così, per quieto vivere. Si comprenderà, dunque, il mio disagio di fronte alla telenovela che si è avviata attorno alla questione dell'identità dei bloggers, avviata da Carla Benedetti (Karla), prima con Perché i bloggers usano nomignoli di copertura?, poi con Il blog è il paradiso.

Non voglio commettere errori, per difetto o per eccesso, nel tentativo di sintetizzare il suo pensiero. Quindi cito i passi sui quali voglio soffermarmi. Karla scrive:
La cosa più inquietante, e anche dolorosa, è che molti di quelli che hanno mandato commenti al mio pezzo lo hanno letto come l' attacco di un'"esterna", o addirittura come una denigrazione.

In realtà, al di là del "Lei" che ho volutamente usato a mo' di sfottò (citando uno dei primi capoversi del bellissimo La suora giovane di Giovanni Arpino: "Il mio nome è Antonio Mathis, sono ragioniere, celibe") nella risposta al suo primo post, credo che il suo intervento sia stato poco gradito per la prosopopea, la supponenza da cui sembrava muovesse: "Ora te lo spiego io come funzionate voi bloggers, perché io ho già capito tutto". Il tono del secondo intervento di Karla è in effetti un po' più dubbioso e riflessivo rispetto al primo, decisamente tranchant, duramente affermativo, quasi senza appello, nel quale aveva scritto:

Tiziano ha ragione a dire che i diari in rete sono spesso “autocensura giornaliera in pubblico ”. Ma secondo me non è solo una questione di contenuti. Uno può anche raccontare cose che gli costino vergogna e dolore, e tuttavia continuare a autocensurarsi .
(...) Una delle forme di potere più terribili del mondo contemporaneo è quella che agisce nella direzione dell’alleggerimento degli individui , della sottrazione di peso, della sottrazione di mondo e di collettività . I nuovi poteri chiedono Io docili, interscambiabili, leggeri. Così nella rete, come fuori.
(...) L’Io dei bloggers è quasi sempre così: aereo, leggero, quindi docile. Parla di sé, certo, parla con il proprio Io sempre in primo piano, ma non fa “il lavoro sporco dell’Io” - diceva Tiziano. Fa il lavoro dell’Io docile – aggiungo io.
(...) L’autocensura in rete, secondo me, non riguarda tanto i contenuti, ma anche e prima di tutto la posizione che prende l’Io nella scrittura . Riguarda certe procedure di cui fa parte anche il mascheramento dell’identità. L’Io che parla in rete troppo spesso si piega a una procedura che ha già incorporata l’azione di un potere.


Pesantino, no? Karla ci hai preso vacui, incapaci di essere qualcosa, e ci ha lasciato schiavi del potere. E qual è la dimostrazione di questo teorema? Il fatto che alcuni bloggers si nascondano dietro nomignoli. Attenzione, nomignoli, che possono nascere anche da riferimenti letterari o comunque personali, e non identità fasulle. Non siamo in una di quelle chat in cui tal Ugo di Venegazzù si presenta con il nome di Moana per spiazzare altre anime perverse in una stanza virtuale. E se l'autore di Personalità confusa diventa una donna di nome Alessia nell'immaginario collettivo, dopo un po' si incazza, per necessità di chiarezza e non certo per motivi sessisti. E' qualcosa di molto simile a quella simulazione che Giulio Mozzi definisce splendidamente poetica autoriale in questo post forse casuale per tempismo, ma illuminante.

Karla si lamenta ancora:
Il blog, sembra incredibile, ma ha già delle regole, addirttura una tradizione, come qualcuno ha detto con intento buono, senza rendersi conto di quanto grottesca sia un'affermazione del genere, per una realtà appena nata e in espansione, e che si suppone il luogo della massima apertura.
Allora per la prima volta mi sono chiesta come mai si sia affermata questa sorta di "regola" nel blog?
Tutti quelli che mi hanno risposto, non hanno risposto a questa domanda.
L'hanno semplicememente rifiutata. Hanno ribadito che così è nel blog, che
questa è la regola, è la tradizione.


Ora, io credo che l'identità dei bloggers non stia tanto nel nome da declinare (anzi, prima il cognome e poi il nome, che come scrive Palomar, in generale identificano la persona produttiva prima ancora che la persona naturale), ma in quello che scrive nel suo sito. Non sta in una regola scritta o non scritta della rete e/o dei weblog (a Karla sembra assurdo che, dopo due anni di vita, ci siano già delle tradizioni: ma non siamo tutti nipotini dei cb, la prima forma di comunità orizzontale basata sulla tecnologia e sulla regola che ogni aderente assuma un nickname?), ma nella parte di identità che un blogger decide di approfondire, esprimere, trattare in pubblico. Forse perché quella è la parte migliore della sua cultura o, piuttosto, sulla quale cerca uno scambio costruttivo con gli altri, per imparare, conoscere, confrontare il proprio dubbio.

Potrebbe verificarsi, insomma, l'esatto contrario di quanto pensa Karla: non un depotenziamento automatico, ma al contrario una valorizzazione assoluta della parola e di ciò che le sta dietro. E dunque una considerazione molto elevata del concetto di collettività nel senso più ampio del termine

Credo che i weblog abbiano dato la possibilità a molti, costretti e limitati dai e nei propri ambiti di vita e di lavoro oppure forse soltanto non in possesso di opportunità e strumenti adeguati, di mettere a disposizione di altri la propria conoscenza, nel senso puro di esperienza esistenziale e non solo tecnica, o di chiederne. Che cosa c'è di più pesante (profondo, intimo, intenso) della propria esperienza? Che cosa sono quegli "altri" a cui mi riferisco, se non una platea teoricamente infinita, perché la rete è infinitamente aperta? Altro che nicchia. E questa, per me, è la sostanza della politica: la consapevolezza. La "polis" che si sta creando in rete, ho l'impressione si basi su questo, almeno in quella parte a cui io sento di appartenere. Non so voi.


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Il mio nome è Karla

Ho ricevuto oggi pomeriggio da Karla (in arte, la professoressa Benedetti) una risposta via e-mail al mio argomentare su identità nascoste dei bloggers e io docili. Più tardi, mi ha annunciato di averla elaborata perché fosse pubblicata su Nazione indiana. Mi piacerebbe risponderle. Probabilmente lo farò. Con i miei tempi.

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Mai più senza

Nasce il sito di Studio Aperto, il tg di Italia1, e che cosa non può mancare? I weblog dei giornalistia. Per ora sono sette e non si capisce benissimo perché siano stati aperti. O forse sì: fa tendenza.

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22.6.03

Il mio nome è Carlo Annese

Gentile professoressa Benedetti,
il mio nome è Carlo Annese. Ho 38 anni, vivo a Milano e sono celibe. La mia occupazione è quella di giornalista professionista: assunto all’età di 19 anni come praticante in un quotidiano di una piccola città del Sud, sono da 14 anni redattore della Gazzetta dello Sport, dopo aver compiuto importanti esperienze in cronaca e come responsabile provvisorio di una redazione composta da 12 persone. Diplomato con 56/60 al Liceo Scientifico nell’82, ho abbandonato gli studi di Economia e Commercio a soli 4 esami dalla laurea, pur avendo la media del 27.

Origini modeste e un presente non proprio elevato, mi rendo conto. Ciò malgrado, mi permetto di scriverLe per invitarLa ad assistere a una giornata di studi sui weblog organizzato dall’Università della Tuscia (Viterbo). Se davvero volesse aderire, sarebbe per me un onore fare la Sua conoscenza diretta, in modo da aiutarLa a rivedere quelle brutte opinioni che si è fatta sull’identità nascosta di chi ha un blog.

Anch’io ne curo uno, dal titolo Fuori dal coro. Non è un avatar, né un modo per non farmi riconoscere dai padroni del vapore, tanto meno da Lei. Al contrario, l’idea di aprire e aggiornare un sito personale mi ha dato la sensazione di poter uscire dagli schemi ai quali sono legato dalla professione e da un certo modo di vivere e di pensare che questa comporta. Ho ritenuto di poter affermare in rete, davanti a un’ideale platea infinita, il mio io, affatto indocile, comunque diverso da quello che un lavoro molto pubblico come il mio (saprà che La Gazzetta dello Sport, il giornaletto rosa che ogni tanto immagino avrà ricevuto in fogli sparsi come confezione di fiori o di pesce nei Suoi acquisti al mercato, anche nel 2002 è stato il giornale più letto in Italia, con 3.120.000 lettori medi al giorno) richiede. Peraltro, l’esperienza di un weblog mi è servita per verificare sul campo, su di me, l’eventuale difficoltà di approccio con la tecnologia: ho voluto essere fuori dal coro, appunto, di chi le ha sposate senza riserve e di chi le ha avversate dal primo momento (luddisti e anti-luddisti).

Tanto Le dovevo, poiché sono tra i pochi che non hanno evaso il censimento dei nomi che Squonk ha fatto sul proprio sito. La invito a dare una sbirciatina, quando ne avrà tempo: è uno studio utile e molto interessante sui motivi (personali, sociali, letterari, ecc.) che sottendono la scelta dei titoli dei weblog e potrebbe riservarLe gradite sorprese. L'avesse fatto prima, forse si sarebbe risparmiata un po' di amarezze.

Come potrà riconoscermi? Ho capelli e carnagione molto scuri, ma forse le sarà più facile individuarmi se assisterà alla tavola rotonda del mattino sul rapporto tra weblog e giornalismo. E’ probabile che gli argomenti che vorrei trattare possano risultarLe familiari e quindi interessanti. Mi piacerebbe, infatti, affrontare il tema della scrittura in rete, un passo oltre quello ufficiale del convegno. Vorrei parlare dell’individualità di chi scrive, dell’istinto e della logica, dell’intimità, della scelta degli argomenti: insomma, dell’espressione dei blogger e della sua parzialità. Piccola psicologia.

Di questo, ha scritto il suo amico Tiziano Scarpa qualche giorno fa in un intervento a cui Lei stessa s’è riferita per sferzare i tanti io docili che vede acquattati dietro le siepi di internet (mi permetta a questo riguardo di suggerirLe di imparare a usare pochissimi semplici comandi per creare un rimando o link dai suoi interventi a quelli che cita: più che una regola non scritta della rete, è per maggiore comodità di chi La legge). Anzi, sa che il dottor Scarpa mi ha addirittura citato? Purtroppo, usando il titolo del weblog, ha fatto incorrere Lei di nuovo in una di quelle spiacevoli opinioni sull’identità nascosta. Mi perdoni.

Il dottor Scarpa ha invitato me e poi Palomar, ops pardòn il signor Alberto Bogo, a non toccare la scrittura solo per uscirne ogni volta indenni, ma a tuffarci nell’abisso, a spiccare il volo verso l’alto, ad azzardare. Ovvero a raccontare qualcosa che costi vergogna, e dolore. E’ probabile che abbia ragione, ma in questi mesi ho riflettuto e ho pensato che potrebbe non interessare a molti sapere che il fatto che io entri in gioco con difficoltà in molte cose della vita sia uno dei temi fondamentali della terapia analitica (che, peraltro, non mi costa vergogna né dolore) a cui mi sottopongo da qualche anno. Ho riflettuto e ho pensato che potrebbe non essere rilevante per quel centinaio di persone che frequentano il mio weblog quotidianamente sapere che ho perso il babbo nel ’96 e che mia madre è gravemente ammalata e vive a millezerosessanta chilometri di distanza dalla città nella quale risiedo e lavoro: una condizione obiettivamente dolorosa, ma che da tempo sto cercando di vivere con serenità e consapevolezza, senza colpevolizzazioni.

Ho riflettuto e ho pensato che la ricerca del dolore a tutti i costi, o meglio la necessità di lanciarlo in pubblico come fosse una torta, che sollecita il dottor Scarpa facciano parte di un modo di comportarsi che non appartiene a me, ma a un’altra parte del Paese in cui viviamo. Non credo che andrò mai in tv a parlare (o recitarne il verso) dei miei problemi intimi, a far finta di litigare con un compare fatto entrare in uno studio per conquistare per contratto una comparsa che vedo per la prima volta o a cercare la mia anima gemella. Per questo, sento di far parte di un’altra Italia, altra da quella che ci fanno vedere in tv appunto, che urla poco e solo per reale sdegno, piange anche in pubblico se qualcosa o qualcuno lo emoziona, va spesso a teatro o al cinema o acquista su internet con largo anticipo (e paga costosi diritti di prevendita) i biglietti per concerti ed esposizioni d’arte, avendo esperienza che questo mi faccia star bene, mi faccia superare qualche inevitabile momento di sconforto o di entusiasmo eccessivo. Qualche giorno fa, essendo nell’impossibilità di fare qualcosa del genere a causa degli impegni pressanti di lavoro, ho confessato a un’amica che mi mancava un po’ di quella bellezza che solo l’arte, nelle sue varie espressioni, riesce a darmi.

Nell’arte, naturalmente, comprendo anche i libri. Malgrado le mie origini modeste e il mio presente non proprio elevato, leggo molto e ho il piacere di condividere questa mia passione con chi frequenta il mio weblog o con i weblogger che frequento, senza volermi sostituire a critici patentati, o eventualmente riconosciuti dall'appartenenza a gruppi in cui si citano con entusiasmo amici, conoscenti e gli altri affiliati e si trattano con indifferenza tutti gli altri (stroncature, in verità, non ne leggo da tempo). Sono un lettore vorace, mi piacciono i sudamericani e gli italiani, Emmanuel Bove e Dylan Thomas, Freya Stark e Carmine Abbate. E continuo a cercare il capolavoro, la lettura definitiva, assoluta. Finora ho trovato soltanto qualcosa che si avvicinava. Ma non tra gli italiani, malgrado segua con fiducia le indicazioni del dottor Giuseppe Genna, che lei certo conoscerà, sul sito della Società delle Menti.

Saprà che qualche giorno fa (dopo aver definito, tra l'altro, un capolavoro "La cronaca della fine" di Antonio Franchini, di cui sto molto faticosamente venendo a capo) il dottor Genna ha annunciato un drastico ridimensionamento del suo impegno. La cosa mi è dispiaciuta assai, avendo avuto anche modo di conoscere dal vivo il succitato in occasione di un altro convegno "in carne e ossa" sui weblog, che si è tenuto a Milano qualche mese addietro ma al quale temo nessuno abbia avuto l'accortezza di invitarLa.

In quella occasione, il dottor Genna affermò che il principale valore della rete, e in particolare dei weblog, è quello di sdoganare la letteratura da quello che il dottor Scarpa definisce il filtro dell’editoria. Per abitudine professionale, prendo sempre appunti. Sul bloc notes di quella sera, ho ritrovato questo: “I weblog sono un tool editoriale che, abbattendo le barriere, rende possibile la pubblicazione diretta”, “Sul piano della elaborazione culturale, la Rete non ha ancora decentrato la produzione dell’intelligenza: è invece una reale possibilità per le voci disperse di emergere fuori dal broadcast culturale italiano”.

Già allora mi fece specie che fosse proprio lui a fare queste affermazioni, lui che è parte integrante dell’editoria, avendo pubblicato alcuni libri con una grande casa editrice, essendo uno dei nodi del filtro. Insomma, è uno di quelli che il dottor Scarpa definisce, anche a proposito di se stesso, “scrittori autorizzati” poiché sono finiti con la faccia (fotografata in ultima o penultima di copertina) sul bancone delle librerie. Oggi mi fa ancora più specie, non tanto leggere che il dottor Genna consideri il dottor Scarpa tra i pochissimi grandi scrittori italiani di cui solo si occuperà d’ora in avanti, ma sentir dire da lui:
E’ assurdo richiedere a un testo o a uno scrittore qualcosa: che senso ha domandare alla prassi di essere qualcos’altro quando già è avvenuta? Poiché, se esiste un’ideologia che corre lungo Società delle Menti, è questa: la letteratura è prassi, una prassi che spalanca il sogno di molte comprensibili prassi. Come ogni prassi, quella letteraria è collettiva e individuale. Se c’è un’antideologia che corre lungo Società delle Menti, è questa: l’ispirazione è una fandonia da cazzari.

Oibò, e come la mettiamo con l’invito del dottor Scarpa? Sì, come la mettiamo con il dolore e il tuffo nell’abisso e il volo verso l’alto e l’azzardo. Non finirà che sono fandonie da cazzari? Io, che nel weblog cerco di mettere, sia pure una parte, ma comunque istintiva, profonda, diciamolo pure: ispirata, di me, che cosa sto facendo? Non rispetto la prassi, sto sbagliando tutto, sono fuori strada? Proprio io che ho difeso con forza l’autenticità, l’umanità e dunque la sua originalità e assoluta diversità rispetto ad altre forme tradizionali di comunicazione, dei weblog! Io che non voglio rassegnarmi all'idea che la letteratura sia solo una sequenza di iscrizioni a scuole di scrittura, di regole e paradigmi da rispettare, ma che contenga ancora una buona dose di individualità, di intimità, di lavoro sporco dell'io (cfr. dottor Scarpa), di ispirazione!

Gentile professoressa,
comprenderà il mio disagio. E forse per questo Le sarà ancora più facile riconoscermi durante la tavola rotonda. Sarà un piacere stringerLe la mano e invitarLa con gli altri partecipanti blogger (se vuole, lo si farà già il giorno prima della giornata di studi, ma non vorrei abusare del Suo tempo: mi creda, il dottor Granieri e il dottor Mantellini sono delle vere sagome!) a ritrovarsi davanti a un buon bicchiere di vino in un’osteria viterbese che 4banalitaten, ops scusi ancora, il signor Cesare Lamanna ha già provveduto a prenotare. Se preferisce, possiamo anche fornirLe in anticipo il nome che troverà sull'etichetta.

Vorrà scusare la prolissità, ma mi sono lasciato prendere dall’istinto. Spesso mi accade, davanti a un computer accesso.

La ringrazio per l’attenzione. Nel porgerLe cordiali saluti, La prego di dare un bacio da parte mia ai piccirilli del dottor Scarpa.

Con rispetto e ammirazione,
Carlo Annese

P.S.: dell'altra Italia che compare in tv, parla il dottor Piero Vereni, in un intervento pubblicato pochi minuti prima del suo sullo stesso sito di Nazione indiana, intitolato La soapizzazione dell'anima. Mi sarebbe piaciuto citarne alcuni passi, ma purtroppo ammetto di non averci capito un accidenti, se non una santificazione di Maria De Filippi di cui il dottor Vereni (ma, considerata l'articolazione delle sue argomentazioni, penso che sia molto più corretto e rispettoso chiamarlo professore) scrive:
Credo che il successo di Maria De Filippi consista proprio in questa sua capacità di popolarizzare un’immagine a lungo elitaria del soggetto occidentale, rendendola fruibile alle masse che, esposte per troppo breve tempo alla pratica distintiva dell’educazione formale, hanno fatto in tempo a cogliere l’allure del soggetto borghese senza riuscire veramente a farlo proprio. Amen.

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Marketing del vino

Alcuni amici hanno deciso di coinvolgermi nel tentativo di dedicare al settore dell'enogastronomia la propria esperienza di comunicatori a vario titolo. Dell'eno, soprattutto.

Prima di dare una risposta (ma non so ancora a quale titolo dei vari di cui sopra) ho coinvolto Antonio Tombolini, poi Valerio Piccolo. Infine ho pensato di cercare qualcosa, un'espressione o un 'emozione se esistono, che potesse rappresentare la mia idea di cosa significhi comunicare il vino. Credo di averla trovata qui, grazie al suggerimento del blog di Luigi Coppini che ogni tanto mi piace sbirciare.

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Appunti di viaggio

Con molto piacere, ho ricominciato a leggere gli Appunti di viaggio di Michele Marziani. La sua crisi di qualche tempo fa non mi aveva sorpreso e non credo che restererei stupito il giorno in cui l'intero fenomeno dei weblog dovesse scemare. La ricerca di nuove forme, nuove fonti, nuovi stimoli fa parte della nostra natura.

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La mappa dei weblog influenti

Mark Glaser ha compilato una mappa dei blog americani più importanti e influenti nell'ambito dei media. Li ha distribuiti tra destra e sinistra (conservatori e liberali) e tra chi è più dedito al blog puro e chi è invece più vicino al giornalismo.

L'aspetto più divertente di questa cartografia è il modo in cui Glaser ha rappresentato i blog. Una scimmietta per le comunità o i gruppi di weblog; un occhio ingrandito da una lente per gli analisti professionali; una bocca aperta per i siti individuali di opinione, a conferma della singolarità del fenomeno. Più grande e spalancata la bocca, più influente il weblog. Urge dentista per panoramica italiana.

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17.6.03

I colori delle immagini

Domenica sera, France 2 ha mandato in onda una bellissima trasmissione, dal titolo "Inedito", dedicata alla Liberazione. Bellissima perché i filmati storici inediti sono a colori. Consentono quindi di distinguere l'azzurro della cravatta di Hitler (sotto un vestito fresco di lana grigio leggero), altrimenti entrato nell'immaginario collettivo con indosso il verde-grigio delle plumbee uniformi naziste; o il colore delicato della divisa del genere De Gaulle.

Grazie a quei colori, è come se la storia rivivesse, ci fosse davvero la prova di qualcosa che c'è stato e non è solo morto e dimenticato, come talvolta accade di pensare di fronte alle immagini in bianco e nero. Che siano fisse o in movimento. Ripensavo a questo, leggendo nella colonna dei commenti de La Stampa di sabato 14 giugno un intervento di Edoardo Bruno a proposito della Paura di guardare. Bruno cita Benjamin, Barthes, che dava alla fotografia il connotato dell'"immagine vivente di una cosa morta", Susan Sontag ("Catturare la morte nell'attimo stesso in cui sopraggiunge e imbalsamarla per sempre è qualcosa che solo le macchine fotografiche possono fare") e Jack Goody, autore di La peur des représentations, un libro nel quale conferma questo aspetto mortuario attribuito alla fotografia, come arresto immediato di qualcosa che improvvisamente contraddice l'idea stessa del movimento, cioé la vita.

In effetti, almeno dal mio punto di vista, tutto questo è il frutto della tecnica. O meglio della sua evoluzione, se l'aggiunta del cromatismo è riuscita a modificare l'approccio personale con l'immagine storica. Non solo: è anche il frutto di un rapporto positivo e costruttivo con la memoria. Scrive John Berger in un libro splendido che si intitola Del guardare, edito da Sestante:
L'uso alternativo delle fotografie ci riporta al fenomeno e alla facoltà della memoria. L'obiettivo deve essere quello di costruire un contesto per ogni foto: costruirlo con le parole, costruirlo con altre fotografie, costruirlo in base al posto che essa occupa in una sequenza di foto e immagini. Come? Normalmente le foto vengono usate in modo unilineare. Molto di frequente sono usate anche in modo tautologico, così che una foto è la mera ripetizione di ciò che viene detto a parole. Ma la memoria non è affatto unilineare, la memoria lavora radilamente, cioé a dire con un enorme numero di associazioni che portano tutte al medesimo evento.
Se desideriamo rimettere una foto nel contesto dell'esperienza - esperienza sociale, memoria sociale - dobbiamo rispettare le leggi della memoria. Dobbiamo collocare la foto stampata in modo che acquisti qualcosa della sorprendente compiutezza di ciò che era ed è.


E' il concetto del "Nunc", dell'"Ora", della capacità dell'immagine di rappresentare la contemporaneità, la vita dunque e non la morte. Berger aggiunge:
Ogni foto può diventare questo "Ora" se le viene creato un contesto adeguato. In generale, migliore è la fotografia, più ampio è il contesto che si può creare. Tale contesto ricolloca la foto nel tempo - non nel suo tempo originale, perché è impossibile - ma nel tempo narrato. Il tempo narrato diventa tempo storico quando è assunto dalla memoria sociale e dall'azione sociale. E' necessario che il tempo costruito e narrato rispetti quel processo della memoria che esso spera di stimolare. (...)
Intorno a una foto si deve costruire un sistema radiale tale che l'immagine possa essere guardata da un punto di vista che sia contemporaneamente personale, politico, economico, drammatico, quotidiano e storico.

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Cannoni e coraggio

Il caso Bossi-Corriere della sera della sera purtroppo conferma quello che scrivevo qualche giorno fa in Voci dal condominio a proposto del Paese della smentita quotidiana. Va dato credito al nuovo direttore del Corriere, Stefano Folli, di non essersi fatto spaventare subito dal vociare sguaiato di retrovia. Del resto, lo si sarebbe dovuto prevedere, leggendo l'editoriale di presentazione, pubblicato in prima pagina domenica.
Si tratta di dare impulso alle energie diffuse nel Paese, più forti di ogni difficoltà, volgendole ad allargare e non a deprimere gli spazi di libertà. Senza chiudere gli occhi davanti a nulla. C'è un'anomalia chiamata conflitto d'interessi che pesa sulle istituzioni; così come esiste una maggioranza voluta dagli elettori, tanto larga quanto impacciata, inchiodata all'eterna questione giudiziaria. Una maggioranza che deve ancora dar prova (a due anni dal voto) delle sue capacità riformatrici. Dall'altro lato c'è un'opposzione che ha il dovere di definire se stessa e la sua prospettiva senza ulteriori indugi. Sullo sfondo si stagliano forze e movimenti che non entrano nello schema del bipolarismo, ma che vanno capiti in quanto espressione talvolta di nuovi diritti.
Se il buongiorno si vede dal mattino...

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16.6.03

Acqua per la cultura

Comune e Provincia di Milano hanno chiuso drasticamente i rubinetti per la cultura, soprattutto quella estiva. Il fatto è confermato dalla mancanza, a una settimana dall'apertura, di uno straccio di sito web sulla Milanesiana - 16 appuntamenti all'insegna della letteratura, della musica e del cinema con alcuni dei più importanti protagonisti della cultura internazionale - che si svolgerà fino al 13 luglio fra Palazzo Isimbardi e il Teatro Dal Verme. A Milano.

Sono riuscito a ottenere qualche informazione grazie alla gentilezza di Nadia Rossinovich, della Sezione Comunicazione della Provincia, contattata via e-mail. Per ora, c'è solo un comunicato stampa raggiungibile attraverso questo link

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9.6.03

Voci dal condominio

Sto studiando. Non voglio andare impreparato al convegno sui blog della Università della Tuscia; non voglio cadere, come capita leggendo Onino o la carne messa sul fuoco da Mantellini, nel tranello di non contestualizzare quel "le regole stanno cambiando" di Dan Gillmor a cui tutti si stanno riferendo per dimostrare che, in fondo in fondo, i weblog stanno cambiando il giornalismo. Se leggete bene, la storia da cui Gilmore, e poi Onino e poi il blogger americano citato da Onino, traggono questa conclusione è assolutamente improponibile in Italia. Anzi, qui accadrebbe il contrario. Sintetizzo per comodità di lettura.

Il Wall Street Journal organizza un convegno con tutti i CEO più importanti d'America, da Steve Jobs a Bill Gates, sotto forma di incontro informale, off the record. Così obbligando i giornalisti invitati e accreditati a non riportare una sola parola di quello che hanno ascoltato. I giornalisti sottoscrivono, ma il WSJ non fa i conti con gli eventuali blogger seduti in platea. Per gli ospiti non giornalisti, infatti, non c'è alcun obbligo e un paio di loro, legali di studi di primo piano e docenti universitari di rilievo, tornano a casa e scrivono. Rivelano che la Apple non produrrà palmari via anticipando.

Ora, si potrebbe mai immaginare qualcosa del genere in Italia? Intendo un convegno con i più celebri capitani d'industria o con i segretari dei principali partiti politici che discutono off the record di presidenzialismo, concentrazioni editoriali, sgravi fiscali o politiche di importazione forzata di extra-comunitari per favorire il lavoro nero? E se anche un giorno dovesse essere organizzato, che cosa farebbero i capitani di industria o i segretari di partito, se non gareggiare per chi produce le frasi più a effetto, affinché i giornalisti possano riportarle tra virgolettoni sulle testate più importanti?

Il nostro è il Paese della smentita quotidiana a un'intervista che ventiquattr'ore prima era stata concordata se non addirittura sollecitata. L'intervista off the record è la regola, quel "lo dico a te perché sei un amico e so di potermi fidare" è il piede di porco per scardinare un'apertura di pagina garantita sul giornale del mattino dopo.

Questa regola, qui da noi, non è cambiata. Forse sta cambiando negli Usa. Peraltro prendendo una piega ben diversa da quanto qualcuno vorrebbe ipotizzare. Usando i blog, è vero, o i siti internet, ma non dei giornalisti bensì quelli dei politici se non addirittura dellle istituzioni. L'intervista di Bob Woodward e Dan Balz, giornalisti del Washington Post, a Donal Rumsfeld a gennaio dell'anno scorso sulle sue decisioni dopo l'attacco dell'11 settembre è il caso più eclatante: il testo è stato sbobinato dagli assistenti del segretario di Stato e integralmente riportato sul sito del Dipartimento della Difesa.

Contestualizzo e studio, dunque. Giroo fra i blog, per trovare risposte. Ma anche per pormi nuove domande, soprattutto su alcuni concetti psicologici che mi sembrano interessanti. Tempo fa mi aveva colpito la considerazione di un blogger a proposito dell'identità di chi scrive, un tema che si potrebbe affrontare nella giornata all'Università della Tuscia. Mi conoscete da ciò che pubblico, diceva in sostanza, ma è possibile che quello mi rappresenti solo in minima parte o comunque è quello che io voglio che venga fuori. Il blog è solo una parte del mio modo di essere, spesso la più presentabile, la più pulita o la meno ordinata, la più razionale o la più istintiva.

Mi è piaciuto leggere, a questo riguardo, l'intervento molto intimo di Palomar sul vivere nell'enorme condominio dei blog. Egli teme che uscire dal nostro guscio, andare oltre la nostra tastiera e i nostri supporti tecnologici, possa produrre uno spaesamento troppo forte. "In pubblico voglio il mio burka", conclude. Fino a quando non arriverà qualche segretario di assemblea di condominio e trascriverà i suoi pensieri, rivelando la sua vera identità.

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5.6.03

Rolling heads

Il caso Jayson Blair, il plagiario del New York Times, ha fatto rotolare un paio di teste molto pesanti: Howell Raines, l'Executive Editor del giornale più importante del mondo, e Gerald Boyd, Managing Editor. Alla Cnn, Blair ha detto:
"I wish the rolling heads had stopped with mine."

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La manutenzione degli affetti

Tanti (Wittgenstein, Genna) delirano per Cronaca della fine, di Antonio Franchini, edito da Marsilio, gridando al capolavoro dell'anno. Lo sto leggendo in questi giorni, ma non mi sembra questa fine del mondo, forse a causa di una eccessiva autoreferenzialità al mondo degli editor e di quelli della Mondadori in particolare, tale da indurre l'autore a commettere anche l'errore di usare un "Noi" che dà per scontato il fatto che egli lavori in quella casa editrice e che i suoi lettori lo sappiano.

Più defilato, ma non per questo poco interessante, è La manutenzione degli affetti, scritto da Antonio Pascale per Einaudi. Non è un capolavoro, ma una raccolta di sette storie vive e vivide, scritte in un italiano non troppo ricercato tantomeno "di categoria" (sebbene ci sia una caduta di tono nell'ultima short story, "Spettabile Ministero" in cui si fa pesantemente il verso a un McEwan d'annata nella descrizione di ciò che si trova in un cassetto dimenticato).

Il fatto che Pascale, casertano, usi un punto di vista a Sud non è certo una diminutio. Anzi, la freschezza che trasmette nell'elencazione della giornata dei ragazzi di primo pelo addetti all'esazione del pizzo nei cantieri edili ("Qui le chiacchiere stanno a zero) o, ancora di più, nel tratteggiare nascita, evoluzione e morte di una famiglia medio-borghese della provincia ("Il ceto medio") sono una prova davvero notevole.

L'apice si tocca in "La controra", un argomento (al di là della storia, in sé splendida per quanto reale, di un ragazzo che diventa rotondo, poiché trova conforto nel cibo dalle continue liti dei genitori e dalla fine del loro rapporto) che ha sollecitato ricordi e momenti di vera e propria nostalgia. La controra è il periodo che va dalle 14 alle 16/16.30 in cui il caldo e una legge non scritta induce gli uomini e le donne del Sud a non agire. Bensì spesso a dormire. Chi sfida quella legge, è considerato un pazzo ma ha anche il vantaggio di poter realizzare ciò a cui altri nemmeno si affannano di pensare (viaggiare, ad esempio: ho sempre amato quelle ore per partire nelle mie scorribande in auto tra gli ulivi e il mare della mia terra) in totale solitudine.

Giocavo a pallone con gli amici del condominio. D'estate, scendevo in giardino verso le cinque. Prima non si poteva. Me lo vietava mio padre: - Deve passare la controra -. Perché la controra era un limite: superarlo significava entrare in un territorio rischioso che non dovevo permettermi di frequentare.
Del resto, ancora me le ricordo le giornate passate al mare da piccolo, quando, nel primo pomeriggio, mio padre agganciava la tenda attorno all'ombrellone, lasciando solo due piccoli spiragli per far entrare la brezza: - Qua il sole è forte assai.


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La paura del sussidiario

Fa sempre piacere verificare la comunione di intenti all'interno del governo in carica. Sabato 24 maggio, il Corriere della sera annunciava il pensionamento del sussidiario:
Il Ministero dell'Istruzione, unico committente e acquirente dei libri scolastici per le elementari, pochi giorni fa ha chiesto agli editori di produrre un nuovo tipo di testo per le terze, quarte e quinte classi. Non più un contenitore di singole materie, ma un insieme di unità di apprendimento realizzate attraverso un intreccio di discipline. L'obiettivo principale non sarà quello di fornire nozioni, piuttosto di insegnare ai bambini a collegarle.

A fianco, compariva però un articolo in cui erano state raccolte le reazioni delle componenti interessate, il cui titolo era:
Ma docenti e famiglie rischiano di disorientarsi

Mercoledì 28, quasi nella stessa pagina, di spalla, un nuovo titolo avvertiva che An è spaventata dall'eliminazione del sussidario e si batterà per rinviarne la pensione.
Al di là delle questioni politiche (comunque molto importanti, considerato l'argomento), il vero problema è che
gli editori scolastici, presi alla sprovvista - è tutto da inventare o quasi - sono piuttosto preoccupati e si sono riservati una risposta. I libri non sono ancora pronti. Per le nuove tecnologie, altra novità in vigore dal prossimo anno scolastico, il ministero potrebbe ricorrere alla tv e produrre in proprio dei moduli.

Mi sono cadute le braccia e venuti i lucciconi agli occhi. Ricordo la buonanima di mio padre, un professore all'avanguardia, che pronunciava, 25 anni fa, una parola che allora e in quel luogo (a Sud, molto a Sud) faceva quasi paura: interdisciplinarità. E' possibile che, malgrado i lustri e i sacrifici umani trascorsi, ancora oggi non si sappia come costruire un manuale elementare interdisciplinare? E' pensabile che, nel 2003, gli editori scolastici e i loro studiosi non conoscano l'uso pratico di un'altra parola che non può più fare paura e che è strettamente collegata alla prima, rappresentandone la concretizzazione tecnologica e non solo: ipertesto?

Mi ponevo queste domande, mentre leggevo la solita illuminata sintesi di Granieri sull'ultimo dibattito aperto sulla funzione dei blog. Secondo Giuseppe, saremmo già oltre lo stadio sperimentale, avremmo creato di fatto un social nertworking, dato un valore realmente democratico e orizzontale (ben più di quello che erano riusciti a fare i forum o le mailing list) alla tecnologia informatica. E mi chiedevo a chi si rivolgesse Granieri, quali fossero i suoi (auto)referenti. Confrontando il disagio e la paura degli editori con l'entusiastica risoluzione dei teorici della blogosfera, ho avuto ancora una volta la sensazione di far parte d'un Paese a due, se non più, velocità:
  • Uno, privato, individuale e individualista quanto si vuole, neanche tanto rivoluzionario ma illuminato, che cresce, vuol farlo, e s'interroga a ogni passo di questa evoluzione, elaborando teorie anche laddove non esisterebbe la condizione minima per farlo

  • Un altro, pubblico, politico e perciò stesso commerciale, benché in apparenza scientifico, che s'adegua al nuovo con una lentezza elefantiaca, con un'attenzione e una sensibilità quasi inesistenti.

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3.6.03

Piccola pubblicità

Avete mai fatto caso? L'Italia va presa da Nord a Sud. Anche per l'Italia del vino è così, nelle carte dei ristoranti. Ebbene, stando alla qualità degli ultimi prodotti e produttori, non è più così scontato. Nasce da qui l'idea di una Italia Capovolta che un mio caro amico, Valerio Piccolo, personaggio a dir poco vulcanico, ha introdotto a La tavola scarlatta, in via dei Chiavari, a Roma.

Capovolta, partendo dalla Sicilia per arrivare al Trentino Alto Adige, e anche particolare. Il filo conduttore è infatti il vitigno autoctono, o per meglio dire italico. Sulla carta, a ogni regione corrisponderà un'illustrazione delle principali uve locali - bianche o rosse - coltivate su quel territorio. Attendo segnalazioni.

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