Elaborazione grafica di Guido Nestola

28.9.04

Dream Team

Neanche Mauro Bevacqua è nuovo di questo blog. Qualche mese fa provai a coinvolgerlo in un dialogo sul cinema, ma la cosa durò poco perché il ragazzo è di quelli seri: non spara volentieri per il gusto di sparare, preferisce stare nella sua cesta. Ma quando decide di venire allo scoperto, i risultati sono molto buoni. Basta vedere DreamTeam, un mensile di basket in edicola da pochi giorni (presentato questa sera con una festa al Tocqueville di Milano) e di cui Mauro è direttore. Una bella idea davvero, nuova, per la grafica e i contenuti, con uno spazio dedicato al Lifestyle, nei pressi del quale non a caso Bevacqua ha inserito una sua intervista con Spike Lee di cui tratteggia una filmografia straordinariamente ragionata. Insomma, un giornale da comprare e, come dice Flavio Tranquillo, soprattutto... ricomprare.

Anche perché Mauro, dopo mesi di silenzio, si è rifatto vivo, con questa mail, ovviamente cinematografica:
Scopro che abbiamo amato (io almeno molto) un film in comune. Ho visto Mar Adentro a Venezia, al Festival, dove anche quest'anno sono riuscito a fare una tregiorni molto intensa. Da tempo un film non mi tirava un cazzotto nello stomaco simile. Perché a me i film piacciono così, lontani dai lieto fine, lontani dalla retorica. Trovo che fosse onesto e molto, molto attuale. Bravissimo Bardem (premiato a Venezia), ma bravissima l'avvocatessa e bravissima anche - nella sua dignità silenziosa - la donna di famiglia che lo curava in casa (la moglie del fratello? non ricordo... comunque quella che era sempre in cucina, quella che in tutto il film dice due-tre battute
al massimo ma mi è sembrata vera, onesta e orgogliosa...).

Di film che vale la pena segnalare, a Venezia poi ho visto il nuovo di Todd Solondz, Palindromes. Purtroppo, lui (se non lo è già) presto diventerà di moda, proprio in quella parte di pubblico che ama dichiararsi amante del cinema, diciamo "da Anteo" (cinema milanese molto up culturalmente, per chi non è della città) che un po' comincia a starmi antipatica... (forse più di un po'). Lui è bravo. Il film è un vero indipendente, può piacere tantissimo e magari meno. A Londra recentemente sono riuscito a comprare il dvd dell'unico suo film che non avevo visto - e la cosa mi ha molto soddisfatto. Oh, io sono uno che se la spassa con poco...

Ho deciso di verificare di persona. E proporrò a Mauro di andare a vedere insieme almeno uno dei film che tra il 12 e il 16 ottobre faranno parte del Tribeca Film Festival, in programma alla Fondazione Prada. Cito dal comunicato stampa, reperibile in rete:
Tribeca Film Festival alla Fondazione Prada, il primo evento di un progetto permanente a cadenza annuale, nasce con l’obiettivo di creare un vero e proprio festival, che crescerà progressivamente nelle edizioni successive, al quale il pubblico potrà accedere liberamente. Il programma prevede un gala première, alla presenza di Robert De Niro e dei co-fondatori del festival Jane Rosenthal e Craig Hatkoff, e sei anteprime (tre documentari e tre fiction), accompagnate da un fitto programma di incontri con i registi e con gli interpreti, secondo la consuetudine del Tribeca Film Festival.

Tra i documentari il festival presenta due anteprime europee, “The Beauty Academy of Kabul” (USA, 2004) e “Lipstick & Dynamite, Piss & Vinegar: the First Ladies of Wrestling” (USA, 2004), e l’anteprima italiana “Arna’s Children” (Palestine/Israel/The Netherlands, 2003); tra le fiction l’anteprima europea “Killer Diller”(USA, 2004).

Se Mauro soffre poco l'Anteo, non voglio immaginare quali reazioni potrà avere nel regno del trendy.

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27.9.04

A casa di Suzanne

Valerio Piccolo non è nuovo di queste parti: ho scritto di lui come di un esperto sommelier, di un bravissimo traduttore dal russo e dall'inglese e soprattutto di un grande e carissimo amico che qualche tempo fa ho ritrovato per caso dopo anni.
A love song for Bobby LongBene, Valerio è stato l'autore dei sottotitoli di A love song for Bobby Long - film "dannato" d'atmosfere carveriano-lethemiane con un finale inutilmente buonista, interpretato da un eccezionale John Travolta -, da aggiungere alla lista dei film freudiani assieme a Nemmeno il destino di Daniele Gaglianone (psichedelica e convincente storia di degrado giovanile in una grigia metropoli molto simile a Torino). Ed è il curatore del nuovo libro di Suzanne Vega, Giri di parole, che sarà pubblicato in esclusiva mondiale da mimimumfax a ottobre. Forse non a caso, visto che Valerio ha ormai con lei un rapporto molto stretto, di straordinario scambio intellettuale e culturale, avendo partecipato ai suoi reading italiani, che la stessa Vega ha sintetizzato così in un'intervista a Specchio della Stampa il 18 settembre scorso:
Domanda - Ha mai fatto la traduttrice?
Risposta - No, non l'ho mai fatto, ma ho lavorato spesso con i miei traduttori: con quello italiano, con quello spagnolo, quello giapponese. E' un lavoro difficile, non basta sapere il significato delle parole, ma anche l'intenzione che sta dietro le parole. Il fatto è che il traduttore è necessario per arrivare a un pubblico straniero. Se si riesce ad arrivare dentro la cultura di un Paese, questo è solo e unicamente grazie al valore di chi traduce.


Per entrare nella cultura di Suzanne Vega, Valerio Piccolo è andato a trovarla due settimane fa a New York, una data tutt'affatto casuale come si comprenderà, compiendo un vero e proprio blitz che lo ha sconvolto. Ho il privilegio di pubblicare una sua mail in cui descrive l'esperienza, piena di suggestioni uniche, assolutamente straordinaria. Eccola:
Suzanne Vega frequenta da 20 anni un circolo di cantautori del Greenwich Village, fondato da Jack Hardy, cantastorie storico del Village. Si vedono tutti i lunedì a casa di Jack, ognuno porta una canzone nuova e ci discutono sopra.

Jack ha perso un fratello per conseguenze da Vietnam, e l'11/9 perde anche un altro fratello che lavorava al WTC.

Nel marzo 2002, Suzanne Vega produce un cd (Vigil) con canzoni sull'11/9 scritte da ognuno dei membri del circolo dei cantautori. Il ricavato va in beneficienza.

Lo scorso weekend, in occasione del terzo anniversario del'attentato, Suzanne, spronata dal suo musical director e bassista di lunga data Mike Visceglia (che ha una casa lì vicino), prende parte a questa due giorni di concerti al Full moon Resort (www.fullmooncentral.com), un posto delle Catskill Mountains (2 ore e mezza da NY, mezz'ora da Woodstock) dove si repira atmosfera hippy (il proprietario è un ragazzo che, per effetto delle canne, sorride praticamente sempre) e si organizzano eventi culturali di questo tipo.

Nella casa centrale del Resort, artisti e ospiti si incontrano, fanno colazione insieme, chiacchierano. Sul prato si allestiscono barbecue e rinfreschi, mentre nelle casupole e nel tendone adiacenti vanno avanti gli eventi in programma, ovvero:

- venerdì sera, in una delle casupole, si inaugura una mostra dei lavori di Tim Vega, fratello di Suzanne, graffitista e disegnatore di poster e magliette per gruppi musicali di NY. Tim lavorava al World Trade Center, ma la mattina dell'attentato era malato e non ci andò. Tre mesi dopo, è morto. Suzanne e la madre (anche lei presente a questo evento) hanno raccolto i suoi lavori sparsi un po' dovunque e li hanno messi in mostra (c'erano anche belle cose). La mostra resta aperta per l'intero weekend;
- dopo l'inugurazione, nella baracchetta di fronte alla casa centrale del Resort, Suzanne Vega apre una serata di grande musica, leggendo storie dal suo libro (quello che ho tradotto io). Poi salgono sul palco tre musicisti (Vicky Genfan, Amy Correia e Joey Eppard) che, pur semi-sconosciuti in Europa e ancora emergenti in America, sono di altissimo livello. Ad accompagnarli, una band formata dal citato Mike Visceglia, un chitarrista di nome Ben Butler e addirittura Jerry Marotta alla batteria (Jerry ha suonato con Peter Gabriel per un casino di tempo, e una volta anche con Pino Daniele: anche lui ha una casa da quelle parti);
- il giorno dopo, colazione per tutti e, alle 2, in un tendone semiaperto allestito sul prato davanti la casa centrale (per avere più posti a sedere) si esibisce Suzanne in duo con Mike. Le fa da apripista Amy Correia, favolosa cantante di cui sta per uscire il secondo album (il primo ha avuto anche qualche recensione italiana in rete, cfr. Kataweb). Suzanne canta, è lei l'evento del weekend. Il pubblico gradisce, lei mi fa una graditissima sorpresa affettiva: mi ringrazia dal palco, spiegando a tutti che sono arrivato fin lì da Roma. Poi invita tutti al barbecue.
- Dopo il barbecue, di nuovo nella baracchetta per la serata finale. Sul palco, Suzanne canta un paio di pezzi, poi fa da presentatrice al "Vigil project", cioè a 4 dei cantautori presenti nel famoso cd dell'11/9 che si esibiscono a turno. Per ultimo, sale Jack Hardy, e la sua è un esibizione sentita e di grandissima commozione che lascia tutti senza parole.

Il giorno dopo, è il momento dei saluti, ma io e i cantanti superstiti (Amy, più un paio dei "Vigil") ci arrampichiamo, guidati da Mike, su uno dei Monti Catskill, per goderci un grande panorama. Due ore di trekking!!

Non credo di aver mai assistito a una cosa di tale intensità emotiva. E' stato un weekend di quelli che ti cambiano, e forse neanche poco.

La prima conseguenza è stata coinvolgere minimufax in un progetto che di sicuro porteremo a termine: una rassegna musicale, spalmata su 3 mesi, tipo "New York a Roma", in cui 10 songwriter americani si esibiranno in "solo-concerts". Sulle sedie, gli spettatori troveranno, oltre alle note biografiche degli artisti, anche la traduzione delle loro canzoni, fatta dal sottoscritto. Così, l'accento verrà inevitabilmente posto sulla scrittura nella musica. Lo farò.

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17.9.04

Attenti al fuoco / 2 - Ditelo con i Freud

Scorro la lista dei film appena visti e osservo che, con l'unica eccezione di Uzak, tutti trattano storie familiari molto particolari e nella stragrande maggioranza i padri siano considerati l'anello (molto) debole: quando non muoiono, se va bene fuggono.

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Baratti musicali

La Sinfonia n.40 di Mozart (che contiene uno dei temi più famosi al mondo) e la Sinfonia n.8 di Beethoven (la meno nota, anche se non la meno preziosa). Che cosa ha dovuto inventarsi Riccardo Chailly, per far passare nella serata di apertura della stagione dell'Orchestra Verdi di Milano la bellezza di 12 minuti e 45 secondi di Goffredo Petrassi per cominciare a dare sempre più spazio alla musica moderna e contemporanea: un Saluto augurale e una Passacaglia, entrambi in prima esecuzione, che avrebbero comunque potuto vivere di luce propria.

E che luce, soprattutto la Passacaglia, composta nel 1931, quando Petrassi aveva 27 anni: tutt'altro che un esercizio scolastico, come Enrico Girardi, simpaticissimo critico musicale del Corriere della sera con il quale ho trascorso buona parte della serata, ha azzardato senza averla mai sentita. Il neoclassicismo della forma è supportato da echi di Gershwin e Debussy, con elementi timbrici che richiamavano al Respighi delle Fontane di Roma: ben più che interessante, a tratti molto coinvolgente, soprattutto comprensibile per orecchie, come le mie, ancora poco avvezze alla musica contemporanea. Di sicuro, più toccante delle due colonne d'attacco con le quali Chailly ha messo al sicuro il risultato, in tutti i sensi.

La sensazione è che, sia pure trascinato da un entusiasmo palpabile, il direttore abbia operato più sulla superficie che in profondità. L'orchestra ha ormai raggiunto un notevole equilibrio di suono e di lettura, ma ha ancora qualche lacuna (specie nei violini) nell'interpretazione, nell'anima insomma. Così, lo spirito dolente della Sinfonia di Mozart è soltanto accennato, la scelta dei tempi di esecuzione del Minuetto sia di quest'ultima sia dell'Ottava di Beethoven - estremamente rapidi - li svuota di personalità evocandone unicamente la natura giocosa un po' troppo infantile, i rari piano e pianissimo sono decisamente meno accentuati rispetto ai forte e ai fortissimo d'assieme nei quali l'orchestra si sente di più (nel senso di riconoscersi, ma anche di ascoltarsi da dentro). Perfino il pubblico della prima è filato via abbastanza rapido, senza troppe ovazioni inutili.

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16.9.04

Attenti al fuoco

Effe ha ragione a proposito del post sul film di Susanna Tamaro: i preconcetti di uomo sono sacri. Io ho invece deciso di toccare con mano e... ustionarmi. Anche perché, dimenticavo, tra i titoli di coda ho dovuto anche leggere che Nel mio amore è un film di interesse culturale nazionale! La nazione di chi? Non in mio nome.

In questi giorni, comunque, mi sono consolato, vedendo molte cose belle (film, letture teatrali, ecc.), rispetto alle quali la Tamaro non solo scompare ma addirittura non esiste. Ad esempio, Le grand voyage, che ha vinto il premio alla Biennale di Venezia come opera prima, tratta un tema molto simile a quello di Nel mio amore: lo scontro culturale tra un padre tradizionalista e un giovane figlio moderno e laico (il primo parla arabo, il secondo francese); due generazioni di emigrati in Francia; il viaggio del padre verso La Mecca, che il figlio è costretto ad assecondare; la scoperta di una fede condivisa, partecipata, fonte di tolleranza, saggezza, pace; la morte necessaria per raggiungerla e sublimarla. Ismaël Ferroukhi, il regista, a sua volta marocchino cresciuto in Francia, descrive tutto con una misura straordinaria, talvolta con ironia, ma sempre con l'intensità giusta e senza mai banalizzare quel rischiosissimo argomento che è il conflitto di generazioni e di culture.

Il neofrancescanesimo della Tamaro impallidisce al cospetto di Private, di Saverio Costanzo, che ha vinto il Pardo d'oro al Festival di Locarno. Un film buio (a cui ha contribuito l'uso della telecamera digitale, nelle riprese quasi tutte in interni) come l'infinito conflitto fra palestinesi e israeliani, ma nel contempo luminoso nel messaggio di nonviolenza: si può combattere rimanendo fedeli alle proprie idee, non uccidendo nessuno, subendo la violenza cieca e insensata degli altri ma trasformando questa scelta di dignità in una vittoria dell'anima a cui anche gli istinti più ribelli alla fine si adeguano, non si rassegnano. Eccellente.

Private è stata la migliore tra le tante ultime pellicole viste, comunque tutte di buon livello:
  • Uzak. La neve di Istanbul non è mai stata così poeticamente associata al silenzio interiore, all'incomunicabilità e al rimpianto. Voto: 8
  • Un mundo menos peor. La costruzione di una felicità posticcia da parte di un uomo, ex perseguitato politico, che prova così a cancellare un passato di dolore; l'ineluttabilità dei sentimenti che riaffiorano.Voto: 7+
  • Vento di terra. Se gli argentini rimescolano tutto insieme (le Malvinas, la dittatura, la Patagonia, ecc.), non vedo perché noi italiani non possiamo associare nello stesso film la povertà di Secondigliano, la disoccupazione meridionale, l'uranio impoverito del Kosovo, insomma una sconfitta costante su tutti i campi: soprattutto se descritto in questo modo nitido, neorealista senza concessioni, essenziale. Voto: 7.5
  • The Manchurian Candidate. Basti dire che io, che non amo i thriller politici, non ho perso il filo per un attimo, anche di fronte a trovate improbabili (ma forse neanche tanto). La realtà della politica americana non è così lontana dalla fantascienza. Voto: 7.

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Amore di Tamaro

Ho detto "Grazie" alla mia amica G.. E l'ho fatto con sincerità. Perché è stata lei a invitarmi all'anteprima del film di Susanna Tamaro, martedì sera a Milano. Ed è stata lei a impedirmi di continuare a ragionare, criticare e censurare, mosso solo da preconcetti. Non fosse stato per G., avrei sicuramente detto che "Nel mio amore", opera prima dell'autrice di best sellers italiani, fa schifo, è inguardabile, è una melassa senza senso, senza neanche averlo visto. L'ho visto, invece, e posso dirlo: è molto peggio di quanto avrei mai potuto pensare, per pura teoria.

Il film è irritante, per costruzione della storia e recitazione. E' un pappone di banalità didascaliche. Un documentario (con un'insistenza urticante per primi piani in stile coreano su fronde d'alberi autunnali, spiegabili solo con la passione della Tamaro per la botanica) su un'idea di francescanesimo moderno, buono da distribuire nei negozi delle Edizioni Paoline. Le reazioni in sala, anche da parte di illustri critici che (visto l'editore della Tamaro, la sua sponsorizzazione ufficiale da parte della Comunità di Sant'Egidio, ecc) scriveranno molto probabilmente il contrario, erano di sconforto, fastidio, noia, stupore per l'assurdità di scene, situazioni, dialoghi. Insomma, è un film inutile, assurdo, ridicolo, mortale.

Ancora stamattina mi chiedevo come fosse possibile non solo produrre qualcosa del genere (che Fulvio Lucisano abbia avuto un'illuminazione sulla via di Cinecittà, è ormai certo), ma pensarlo e realizzarlo. Ho trovato la risposta qualche ora fa, in questo articolo del Resto del Carlino. Vi si annuncia, tra l'altro, che quasi sicuramente il Papa vedrà il film (povero, è già messo così male...), ma soprattutto si spiegano le origini, come dire, mistiche dell'impresa:
L'esordio dietro alla macchina da presa, ammette la Tamaro, è stato 'terrorizzante. Avevo paura soprattutto di non reggere i ritmi del set, profondamente diversi da quelli di uno scrittore. Sono partita con una valigia di integratori alimentari facendomi fermare alla dogana dall'antidroga che ha voluto controllare tutte le pasticche che prendevo».

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10.9.04

Son quaranta...

... e son contento di dimostrarli tutti. L'ho detto anche alla mia mamma, ieri sera, al telefono, quando mi ha avvertito di avermi spedito un "piccolo bonifico" per il mio compleanno. Le ho risposto che non avrebbe dovuto: il suo regalo, me lo aveva già fatto il 10 settembre di quarant'anni fa, mettendomi al mondo.

E' il regalo al quale Ramòn Sampedro, il protagonista di Mare dentro interpretato magistralmente da Javier Bardem, vuole rimanere legato per sempre scegliendo di morire per porre fine allo strazio di una vita senza dignità, tetraplegico e inchiodato per 28 anni in un letto, e per conservare fino all'estremo la sua libertà. Un film molto intenso, commovente, positivo.

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9.9.04

A Milano, a Milano

Non si è ancora sopita l'eco per i Giochi di Atene, che il Corriere della Sera, sabato 4 settembre, pubblica un'intera pagina in Cronaca di Milano con questo titolo:
"Subito una grande alleanza per le Olimpiadi a Milano"
Formigoni: la città torna a credere in se stessa, battiamoci tutti insieme
Moratti: un'occasione da non perdere per ripensare la metropoli

Mi sembra fin troppo chiaro che l'idea sia solo una buona trovata per le prossime elezioni, lanciando un sasso che potrebbe ricadere solo nel 2016 (quindi a tre legislature di distanza). Non a caso, all'interno del lungo servizio Giangiacomo Schiavi ha raccolto solo adesioni entusiastiche e banalità impressionanti in puro politichese, da destra a sinistra, compresa quella di Nando Dalla Chiesa, definito non so perché "prudente": "L'occasione è importante per attirare i finanziamenti utili alle infrastrutture, come hanno già fatto Genova e Roma con G8 e Giubileo". E non a caso, dell'iniziativa parla solo il governatore della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, mentre non c'è traccia del sindaco della città, Gabriele Albertini.

No, non può che essere una boutade promozionale. L'esperienza di Atene ha dimostrato che una città come Milano mai e poi mai potrà ospitare i Giochi olimpici. Gli ostacoli sono diversi: istituzionali, strutturali, politici e, come sintesi dei precedenti, logici.

Atene ha compiuto un vero e proprio miracolo, concludendo negli ultimi quattro mesi opere che per tre anni hanno rappresentato la preoccupazione maggiore per il Cio. Alla fine del 2002, il presidente Rogge ha dovuto ricorrere al cartellino giallo e alle minacce di trasferire altrove (dove, poi, non si sa) i Giochi se non fosse stato dato un vero determinante impulso ai lavori. Il risultato è stato straordinario, fors'anche troppo, in linea con le manie di grandezza di Gianna Angelopoulos-Daskalaki, la regina del Comitato organizzatore. Ma oggi Atene ha una quantità di impianti sportivi, di spazi espositivi, di centri da utilizzare per l'organizzazione di eventi di ogni genere, unica in Europa. Ha realizzato strutture, la cui capienza varia da 5000 a 8000 posti, alll'avanguardia nel mondo per funzionalità e capacità ricettive. Il bilancio finale è di oltre 35 impianti, fra quelli di nuova costruzione e quelli derivati dal trasferimento d'uso di vecchie strutture (come gli hangar del vecchio aeroporto nazionale).

Il miracolo è stato reso possibile dal fatto che Atene partisse da zero, o comunque da una situazione sulla quale si sarebbe potuto solo implementare uno sviluppo positivo. Il primo vero piano urbanistico della città risale al 1981: ha dato un senso al futuro, rinunciando per principio a ottimizzare il passato. Il sistema viario risale a molto prima e il traffico su gomma è stato l'unico sistema di trasporto in città fino a quando il Cio ha assegnato l'organizzazione dei Giochi, avviando così la costruzione dal nulla di tram e treno leggero e l'allungamento di due linee di metro che servivano quasi esclusivamente il centro. L'estensione della città è tale, che è stato possibile localizzare facilmente grandi aree inutilizzate nelle quali realizzare tanti impianti nuovi e collegarle con una tangenziale costruita nel giro di due anni

Tutto questo è l'opposto di Milano che non solo ha un sistema di infrastrutture già molto complesso e non facile da sviluppare, ma soprattuto non ha impianti di livello olimpico e non ha fatto nulla negli ultimi venti anni per dotarsene. Scrive Schiavi nell'articolo del Corriere:
Anche il palazzetto dello sport, crollato sotto il peso della neve nell'85 e mai più ricostruito, è il segno di un'inerzia da rimuovere. Non c'è uno stadio per l'atletica, servono le piscine olimpiche, bisogna trovare le arene per pallavolo, basket e ginnastica. Solo l'Idroscalo è all'altezza di un torneo olimpico. Poi ci sono i villaggi, i centri stampa e tv, gli alberghi.


Ecco il punto. Memore dell'esperienza di Atene, il Cio ha stabilito che, dopo Pechino, assegnerà l'Olimpiade estiva solo a città che abbiano tutti gli impianti necessari già disponibili al momento della decisione finale. Quindi, se l'obiettivo è il 2016, entro luglio 2009 Milano dovrebbe già aver chiuso i cantieri.
Di recente, Il Cio ha anche dato un ultimatum a Torino, perché entro la fine di settembre presenti il piano completo della disponibilità degli alloggi per la famiglia olimpica e i media per l'Olimpiade invernale. Ma, a proposito di Torino '06, non so da chi riuscirà a farsi sentire d'ora in poi, visto il marasma politico dal quale il Toroc (il Comitato organizzatore locale) è già travolto. La Stampa di ieri titolava "Battaglia d'autuno sulle Olimpiadi", annunciando il possibile siluramento di Valentino Castellani dall'incarico di presidente e la sua sostituzione con Franco Carraro, prossimo a lasciare l'incarico della Federcalcio. Ad Atene, su pressione di Rogge, il governo ha dovuto chiamare in tutta fretta la Angelopoulos perché prendesse il posto di un amico dell'ex premier Simitis alla presidenza dell'Athoc. Con tutte le critiche che si potranno rivolgerle, è indubbio che i risultati del lavoro di Nostra Signora dei Giochi sono stati straordinari. In Italia, potrebbe mai accadere qualcosa di simile?

Certo, per le elezioni si potrebbe far tutto. Anche vendere al popolo l'Olimpiade come un'occasione, un'opportunità. Non del tutto a torto: lo si comprende dalla dichiarazione di Formigoni contenuta nel titolo del servizio del Corriere, una contraddizione in termini. La città torna così tanto a credere in se stessa, da aver bisogno di un obiettivo faraonico e impossibile per muoversi davvero, per realizzare qualcosa di nuovo socialmente utile per i suoi abitanti, in termini di servizi e infrastrutture, oltre ai grattacieli e ai nuovi poli fieristici. Per vivere e far vivere, dunque, e non solo per produrre.

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Anche i ricchi piangono

Il signor Blogger non s'è ancora ripreso dalla sindrome del rientro. In questi giorni, sta facendo un po' di confusione, ripubblicando post che non aveva ancora pubblicato (!) etc. La ditta Fuoridalcoro si scusa e assicura che si sta ingegnando per capire che cosa è successo in sala macchine. Grazie.

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8.9.04

Dimmi perché

Ho letto con orrore nei giorni scorsi le descrizioni degli scempi nella scuola dell'Ossezia. Più scorrevo le righe, più cresceva una sensazione di vertigine, di inquietudine e di nausea, ma ancora meno capivo. Come si fa? Perché si fa, tutto questo? Com'è possibile che si possa arrivare a tanto?

Per una volta, forse, ha ragione Giuliano Amato a invitare la sinistra a non fare troppi distinguo sottili (detto da lui, poi...). Ma la risposta non è nemmeno quella di condannare tutto e il contrario di tutto. I miei quesiti rimangono irrisolti. Da qualche parte, ho trovato questa frase:
"La vita si è imbarbarita, non esiste più una logica nella guerra, solo atrocità e sangue contro sangue"


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Lo sport non è cultura

Com'è bello, il Festival di Mantova. Com'è democratico, il Festival di Mantova. Com'è emozionante vedere tutta la gente del Festival di Mantova, che ascolta i grandi scrittori, si mette in fila per prendere la colazione con i famosi romanzieri, divide gli strapuntini con i celebri saggisti. Com'è trendy andare al Festival di Mantova e apparire in foto in mezzo alla folla in deliquio. Com'è nuova la cultura del Festival di Mantova, quella che tutti possono fruire per una cifra modica. Com'è fresco il vento che arriva dal Festival di Mantova, una brezza leggera che offre a chiunque la sensazione di esser parte della cultura, protagonista e non solo spettatore, uguale fra gli uguali. Com'è libertario, il Festival di Mantova, dove destra e sinistra si incontrano e discutono, dove musulmani ed ebrei si incontrano e discutono, dove ex terroristi e giudici si incontrano e discutono.
Aahhhh, il Festival di Mantova è meraviglioso. Del resto, non lo scrivono da mesi tutti i giornali? Il Festival di Mantova è l'unico luogo nel quale chiunque vada può sentirsi diverso, migliore, partecipe di un fenomeno unico al mondo.

Chiunque, ma non la Gazzetta dello sport. Per il secondo anno consecutivo, la dottoressa Mara Vitali Comunicazioni, responsabile dell'ufficio stampa, ha respinto la richiesta di accredito per un giornalista del quotidiano più letto in Italia: il sottoscritto. Lo scorso anno, il "no" è stato riservato a un collega che per un'intera stagione calcistica aveva dedicato una pagina delll'edizione della domenica a un'intervista con scrittori importanti, che era andato a ritrovare nei posti più strani del mondo, su segnalazione di calciatori e atleti che ne avevano amato i libri. La motivazione è identica, da un anno all'altro: la Gazzetta dello Sport, quindi non solo i suoi redattori ma soprattutto gli oltre 3 milioni di lettori medi quotidiani, non è culturalmente adatta per il Festival di Mantova. Per dirla in parole più povere, essendo abituati alla povertà delle parole: chi scrive e chi legge la vecchia Gazza, secondo l'esimia dottoressa Mara Vitali Comunicazioni è ignorante.

Ora, che fossi convinto d'essere un giornalista di serie C (per la dottoressa Mara Vitali Comunicazioni, comprensibilmente poco avvezza al linguaggio sportivo, essere di serie C è un modo figurato per rappresentare l'appartenenza a un gruppo di livello inferiore alla media) è risaputo. Questo episodio lo conferma, malgrado i miei titoli di studio, la mia esperienza ventennale come professionista della comunicazione e, in questo caso, perfino la mia frequentazione del mondo dei blogger che mi pare non sia fenomeno così diffuso (mi auguro che la dottoressa Mara Vitali Comunicazioni abbia il tempo di chiedere qualcosa in merito al signor Scarpa Tiziano, tra gli ospiti del Festival). Ma mi fa sorgere alcune domande.

Mi chiedo a cosa serva, per fare solo un paio di esempi, che il Festival inviti Julio Velasco per parlare di Quino con Lella Costa oppure abbia tra i tanti relatori anche i componenti della Nazionale di calcio degli scrittori intitolata a Osvaldo Soriano, molti dei quali collaborano molto spesso con la Gazzetta dello Sport con interventi in prima pagina.
Mi chiedo quanto valga per la Gazzetta aver pubblicato un inserto speciale sulla Fiera del libro di Torino, sponsorizzato dalla Regione Piemonte che confidava nella grande distribuzione della nostra testata per raggiungere un numero sempre più ampio di utenti da invitare al Lingotto. A cosa serva aver dedicato un inserto speciale, una teoria di articoli e recensioni e soprattutto alcune decine di migliaia di euro alle ultime tre edizioni dei Teatri dello Sport, una rassegna internazionale sul teatro di cui la testata è sponsor. A cosa serva insistere perché compaiano in prima pagina interventi di importanti scrittori italiani, autori di bestsellers (Beppe Severgnini) o importanti opinionisti (Edmondo Berselli). A cosa serva che ogni giorno io, come la stragrande maggioranza dei miei colleghi, ci preoccupiamo di rendere intellegibili i nostri articoli per un pubblico tanto vasto, che la dottoressa Mara Vitali Comunicazioni forse arriva a fatica a contare in un giorno solo.

Pensavo che tutto questo servisse, un giorno, a ottenere un accredito per il Festival di Mantova e raccontarne le vicende ai miei lettori. Invece no. Perché io sono ignorante, non svolgo un lavoro culturalmente elevato, non sono culturalmente all'altezza di un appuntamento così democratico e intellettualmente aperto, da essere riservato a un'élite. Non può essere che questo, perché non posso credere che la dottoressa Mara Vitali Comunicazioni, una persona di così elevato spirito e legata a un evento di tale importanza, non abbia accettato la mia richiesta perché aveva bisogno di un incasso in più e di un posto libero in più da mettere in vendita. No, ella ha stabilito che io sono un troglodita poiché mi occupo di palle che rotolano, giganti che saltano, nanerottoli che fanno i salti mortali: di quello soltanto posso occuparmi, anche se hanno appena incantato il pianeta durante l'Olimpiade che ha fatto rivivere il mito dell'Antica Grecia, perché altrimenti potrei sporcare. Ma soprattutto la dottoressa Mara Vitali Comunicazioni ha stabilito che io scrivo per oltre 3 milioni di trogloditi al giorno. Che devono restare tali, democraticamente.


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5.9.04

A Pechino, a Pechino

L'Olimpiade che vi sarà ospitata nel 2008 è solo uno dei motivi, non il principale. Per tante altre ragioni, i due maggiori quotidiani italiani hanno deciso di aprire un ufficio di corrispondenza da Pechino, inviando due firme importanti. La Repubblica ha già spedito Federico Rampini, il Corriere della sera fra pochi giorni avrà Fabio Cavalera su piazza con un contratto giustamente danaroso che comprende alcune clausole, tra le quali un volo di andata e ritorno per Milano una volta al mese per la gentile consorte. La Cina è il nuovo mercato, la Borsa del futuro: la stampa italiana s'adegua, in tutto e per tutto.

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So' rragazzi

Rientro da Cernobbio, dove ho fatto da accompagnatore-inviato al seguito di Stefano Baldini e Igor Cassina, due degli olimpionici di Atene, ospiti del Forum sullo Stato del mondo a Villa d'Este. Ho incrociato capi di Stato, premier passati e attuali (compreso il nostro, di cui mi son sorbito trenta-minuti-trenta di intervento da propaganda elettorale), premi Nobel, ministri e affini, top manager, economisti di cui ho letto le copertine dei libri, Prodi, Illy, Letta, ex comunisti, post comunisti, post craxiani. Mi sono commosso assistendo al diagolo fra Rita Levi-Montalcini, ormai un'icona da fotografare torreggiando al suo fianco, e la fidanzata russa di Igor (Marina) in cui si descrivevano a vicenda le emozioni vissute una davanti al televisore e l'altra sugli spalti di Atene. Mi sono irritato ascoltando la vanagloria dell'assessore allo Sport del Comune di Meda che sembrava il fratello maggiore di George Bush per la quantità di cose che aveva inventato e fatto e il numero di persone che aveva conosciuto e reso qualcuno con la sola forza delle sue mani.

Insomma, ho partecipato al teatrino nel quale le nostre due medaglie d'oro hanno fatto anticamera, ore intere di backstage (perfino alla registrazione di una trasmissione di Bruno Vespa), ma alla fine hanno conquistato la scena. Con la loro naturalezza, con la loro spontaneità, con la loro timidezza, con la forza della loro semplicità. Bei ragazzi, puliti e con messaggi brevi ma significativi: noi siamo il simbolo del sacrificio, l'Olimpiade è il simbolo vero della pace, fate come noi. Semplice. Fin troppo, ahimè.

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4.9.04

Scelte di campo

Dopo 23 giorni intensi di inglese e greco spinto, avevo bisogno di riacclimatarmi. Ho preso il giorno libero e sono andato al cinema. Ma mentre tutti puntavano Fahrenheit 9/11, io ho fatto due scelte "alternative".

Prima Uzak, uno di quei bei film pieni di silenzi, primi piani eterni, protagonisti che ragionano sulle cose senza aprir bocca e pensieri che scorrono sui loro volti. Il rimpianto tracima, la solitudine dell'anima è una scelta di vita inevitabile, la sospensione e l'attesa di qualcosa che accada sono uno stile di comportamento. Un film che ti prende lo stomaco, se ti ci ritrovi; altrimenti, ti chiedi che senso abbia ed è facile che non trovi una risposta.

Poi Te lo leggo negli occhi, italianissimo e prodotto da Nanni Moretti (che si regala un inutile cameo). Indefinito e indefinibile, capace solo di farmi definitivamente respingere Stefania Sandrelli che già in Un film parlato mi sembrava la peggiore del cast. Generazioni di madri e figlie che si sopportano a fatica, padri inesistenti e per questo cuccioloni teneri da far cantare mentre portano a spasso un paio di corna, quello che si definirebbe uno spaccato della famiglia nostrana in preda a una crisi di comunicazione: insomma, un pastiche senza molta sostanza che fa fare al cinema italiano un paio di salti indietro non richiesti.

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3.9.04

Notte a Strefi

Due mattinate libere in venti giorni. Le ho succhiate fino al midollo, per respirare un po' d'aria olimpica fuori dagli impianti, lontano dal sudore sano degli atleti, dal bel tifo della gente, dalle bandiere e dai cori. E ho cercato di scoprire luoghi di Atene che non conoscevo. Ho scoperto, così, una città che non avevo trovato nella descrizione di alcun libro. Ho attraversato stradine dolcissime, piene di verde a pochi passi dal centro; luoghi dell'anima nascosti dal traffico rumoroso ma molto meno ostile del solito.

Omiros, ad esempio, una traversa di Skoufia, lunga parallela di Stadiou che unisce piazza Omonia a piazza Syntagma: comincia con le poltroncine esposte di due piccoli bar a conduzione familiare e finisce con una scala ripida che porta ai piedi del Licabetto. Elegante e silenziosa, limitata ai lati da ulivi e rampicanti.
Oppure Akadimia, la strada delle librerie. Non ne ho mai viste tante, una affiancata all'altra, e con un gusto così curato per l'esposizione nelle vetrine. A differenza di molte librerie italiane, dove regna la confusione o incombe un buio che respinge, quei negozi invogliavano a entrare, a superare la barriera della lingua.
E ancora Strefi, che, a differenza delle altre, ho conosciuto di notte grazie a un bellissimo gruppo di colleghi diventati amici durante l'Olimpiade. E' una collinetta a cui si accede da un'altra scala. Sopra un parco giochi pulitissimo e in ordine, c'è un ristorante all'aperto tenuto da un burbero signore che parla un inglese americano e ha alle dipendenze un cameriere albanese che non parla neanche il greco. Ancora oltre il ristorante, c'è un grande masso su cui inerpicarsi per arrivare su una vetta, posta di fronte al Licabetto, dalla quale si domina il panorama di Atene illuminata. Un presepe accogliente, da perdere il fiato. Qualche giorno più tardi, ho raccontato a un amico greco la nostra scoperta. "Ah, certo, Strefi - mi ha detto -. Le scale, il ristorante e quella collina sono da sempre il luogo di ritrovo degli anarchici di Atene". Sarà per questo che mi è piaciuta così tanto?

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2.9.04

Autostima olimpica

La fine di un'Olimpiade è come la mezzanotte di Capodanno. Ripvedi nella memoria tampone del cervello le immagini più belle ed emozionanti, rivivi gli attimi più sconvolgenti, ripassi alcuni brani dei migliori articoli che pensi di aver scritto. Alla fine, fai un consuntivo e, a seconda che sia positivo o negativo, elabori i buoni propositi per la ripresa dell'attività quotidiana, ordinaria.

Il mio consuntivo, per una volta, è buono. La mia autostima non è aumentata a dismisura, ma quanto meno è stata tacitata, soddisfatta, tranquillizzata. Se volessi esagerare, direi che questa Olimpiade di Atene, alle soglie dei 40 anni, è stata un momento di maturazione e consapevolezza. Entrambe figlie di un paradosso.

Non sono contento soltanto dell'ambiente costruttivo, stimolante del gruppo nel quale ho lavorato o dei complimenti e delle critiche che ho ricevuto per gli articoli pubblicati sulla Gazzetta. Lo sono piuttosto per l'evidenza che il mio lavoro pregresso ha avuto sugli altri giornali e l'attenzione che ha ricevuto da alcune grandi firme del giornalismo italiano. Molti articoli miei (ma anche del mio collega e amico Luca Chiabotti) sono stati stralciati, saccheggiati, sì copiati e incollati da inviati di grido di testate diverse dalla Gazzetta. Frasi; concetti; dichiarazioni raccolte in anni di servizi esterni, chiacchierate e rapporti costruiti col tempo e con la fiducia; capoversi interi sono stati acquisiti e sottoscritti da giganti della carta stampata, emergenti o già affermati. Beh, per me è stata una grande soddisfazione. Io, che sono convinto di non poter trovare spazio su un giornale politico o di cronaca nazionale pur avendo anni di gavetta alle spalle, essendo ormai etichettato come giornalista sportivo e dunque di "serie B", di qualità inferiore per cultura e capacità cronistiche, sono stato il ghost writer di corrispondenze che, per la firma che portavano in calce, saranno state sicuramente additate come prove di grande giornalismo.

Faccio un solo esempio molto significativo, ma almeno altri tre casi simili a quello che segue mi hanno riguardato nei giorni scorsi. Il 2 novembre 2002 ho pubblicato a pagina 30 della Gazzetta un'intervista (realizzata via email) con Svetlana Khorkina, campionessa russa di ginnastica artistica. Eccone ampi stralci, dall'inizio:
Tutto in lei è teatro. Ogni salto, acrobazia, sguardo concupiscente, gesto accurato delle mani o smorfia studiata di quel faccino da cigno, che l' hanno fatta diventare per due volte campionessa del mondo assoluta di ginnastica artistica e ad aprile di quest' anno a Patrasso le hanno fatto vincere il terzo titolo europeo. E al teatro vero, non più quello recitato in pedana, Svetlana Khorkina approda a 23 anni, per ora solo una parentesi tra gli impegni agonistici e la promessa di arrivare fino ai Giochi di Atene del 2004.
Oggi debutta a Mosca come protagonista di "Venus", uno spettacolo tratto dalle 4000 lettere che Henry Miller, l' autore del "Tropico del Cancro", scrisse alla sua ultima donna, Brenda Venus: una prima che il regista Sergei Vinogradov ha atteso e desiderato per sei anni. "Nel ' 97 venne a trovarmi per la prima volta al Centro di preparazione olimpica di Mosca - racconta la Khorkina -. Mi descrisse il progetto e la trama. Ma allora ero troppo stanca per gli allenamenti e lo scarso tempo libero che mi restava e non mi mostrai entusiasta dell' idea. Gli dissi che mi stavo preparando per l' Olimpiade di Sydney e avrei potuto dedicargli un po' di attenzione solo dopo che fosse finita. "Ti aspetterò", mi disse lui".
Testardo, quel regista, ma soprattutto spinto da una convinzione assoluta: che quella ragazza determinata, sexy, brillante e imprevedibile, complessa e affascinante come un' eroina dei romanzi di Dostoevskij, fosse l' unica interprete possibile per una storia d' amore fra una donna di 28 anni, una regina della seduzione, e un celebre scrittore di 85.
Perché nella Khorkina c' è tutto e il contrario: l' ironia e il dramma, la leggerezza e il tormento. Nel suo sangue scorre arte, il suo fascino è unico in uno sport di bimbe in miniatura che sembrano costruite con la gomma vulcanizzata, la sua eleganza è regale, ma nel suo spirito c' è anche il piacere di stupire, il desiderio perverso di apparire e di conquistare, e una naturale curiosità per tutto ciò che è nuovo. Per questo, a 18 anni, posò in topless per Playboy: tre fotografie, scelte accuratamente da lei, che la trasformarono in un sex symbol dello sport russo.
"Il desiderio di sperimentare è importante nella ginnastica - spiega la Khorkina -. Col mio allenatore sono sempre alla ricerca di nuove idee e, mi si creda o no, l' esperienza di Playboy mi ha aiutato molto nella carriera sportiva. Mi ha insegnato a dare di me l' immagine migliore e mi ha tolto parecchie inibizioni. Se lo rifarei? Perché no! Davanti a un buon contratto, non avrei dubbi. Quanto all' essere sex symbol, in Russia è cambiato il modo di intendere lo sport, ora si tiene conto della sessualità di chi lo pratica. Le ginnaste indossavano body coprenti e anonimi, le atlete usavano pantaloncini lunghi fin sopra le ginocchia. La moda le ha liberate e le ha riempite di colori: oggi una gara femminile di atletica è più suggestiva di una notte al Moulin Rouge".
"Credo di aver sempre avuto un talento per recitare, ma alla maniera degli attori russi, non come Di Caprio che non mi dà emozioni - afferma Svetlana -. Dalla lettura del copione, mi è venuta voglia di leggere i romanzi di Miller. E, più andavo in profondità nel personaggio di Brenda, più mi rendevo conto di quanti tratti in comune avessi con lei. La fame di vita, più di tutto. Era questo il motivo per il quale era attratta da Henry, un uomo che aveva avuto un' esistenza intensa e tante esperienze interessanti: proprio quello che a lei mancava".

(...)

Uno scarto di età ugualmente grande, Svetlana lo vive da sempre con Boris Pilkin, l' allenatore ottuagenario che, lavorando su di lei, ha impresso alla ginnastica mondiale una svolta longitudinale, nel vero senso della parola. Mentre le avversarie volavano in avanti e indietro, la Khorkina si avvitava in aria su se stessa, creando combinazioni complesse e movimenti originali. Soluzione geniale, l' unica possibile per affrontare quello che, paradossalmente, nella ginnastica artistica è un problema: l' altezza «eccessiva» di Sveta. Con il suo metro e 65, sembra Golia in un bosco di elfi.
Un gigante fascinoso, però, che oltre agli avvitamenti, ha puntato tutto sulla interpretazione, sulla linea fluida del corpo e due gambe lunghissime che muove come enormi forbici sottili. "Pilkin - dice la Khorkina - è il mio secondo padre e il mio cervello".

(...)

La sua vita è stata decisamente diversa e oggi Svetlana può godere di qualche privilegio rispetto a una disciplina ferrea, come quello di recitare l' ultima passione di Miller. E a chi le chiede se ha mai davvero pensato di ritirarsi, risponde in tono melodrammatico: «Sarebbe come chiedermi quando penso di morire». Forse ha ragione Leonid Arkaev: «Svetlana Khorkina è come Anna Pavlova, la più grande ballerina classica del teatro Maryinsky: morirà sul palcoscenico». Sipario.

Bene, martedì 24 agosto '04, uno dei più venduti quotidiani italiani ha pubblicato a pagina 28 un servizio su Svetlana Khorkina, caduta nella finale alle parallele asimmetriche dell'Olimpiade. Con questo attacco:
ATENE - Costruzione e crepuscolo delle dee. A chi le chiedeva quando si sarebbe ritirata, Svetlana Khorkina rispose: "Sarebbe come chiedermi quando morirò". Leonid Arkaev, il capo della ginnastica russa, amava dire che "Svetlana è come Anna Pavlova, la più grande ballerina del teatro Marjinskij: morirà sul palcoscenico".

Questi, invece, sono il terzo e quarto capoverso:

Tutto in lei è teatro, da sempre. Le acrobazie, le mosse, gi sguardi. Due anni fa debuttò a Mosca come protagonista di "Venus", Venere, pièce tratta dalle quattromila lettere che l'ottantenne Henry Miller scrisse alla sua ultima donna, Brenda Venus appunto, mezzo secolo di meno. Il regista, Sergej Vinogradov, ha corteggiato Svetlana per sette anni. "La prima volta - ha raccontato lei - venne a trovarmi al Centro di preparazione olimpica di Mosca. Era il '97. Lo ascoltai, ma ero troppo stanca per gli allenamenti e concentrata sulla ginnastica per dirgli di sì. Gli consigliai di cercarne un'altra. Mi rispose: ti aspetterò". Il regista vedeva in lei un'eroina di Dostoevskij, nel cui animo convivono l'ironia e il dramma, la levità e l'inquietudine, la passione e il tormento. Prima che in teatro però la Khorkina è finita su Playboy. Tre sole foto, scelte di persona. L'Afrodite dello sport russo. "E' stata un'esperienza preziosa. Mi ha insegnato a dare di me l'immagine migliore e mi ha tolto molte inibizioni. Da noi le ginnaste indossavano body anonimi, le atlete pantaloncini alle ginocchia. Ora siamo più libere". Forse troppo. "Avete visto le gare di atletica? Sembra di essere al Moulin Rouge".
Tra la Khorkina e il suo allenatore Boris Pilkin ci sono gli anni che separavano Brenda Venus da Miller e nel contempo la legavano a lui: in quanto, come ha notato Svetlana, "Miller aveva avuto una vita intensa e tante esperienze; proprio quel che a Brenda mancava". E' stato il c.t. Pilkin a impostarla nell'unico modo possibile: anziché saltare come le altre in avanti e all'indietro, una donna lunga e alta (un metro e 65, una spanna in più delle cinesi) come la Khorkina doveva avvitarsi su se stessa, creando movimenti originali, combinazioni complesse. "Pilkin è il mio secondo padre e il mio cervello" ha detto.

Il grande inviato, quanto meno, ha avuto il buon gusto di citarmi alla fine del suo servizio (avvertendomi in anticipo, con una amichevole pacca sulla spalla, sicuro di avermi fatto una concessione speciale):
"Un giorno - ha raccontato due anni fa Svetlana a Carlo Annese della Gazzetta dello Sport - un suo collega americano mi chiese se sapevo chi fosse Nabokov. Con chi pensava di avere a che fare! Certo che lo sapevo! So che molti mi hanno identificato con Lolita. Ho letto il romanzo, mi è piaciuto, ne sono stata lusingata".

Altri non lo hanno neanche fatto. Forse gli stessi che sono convinti che di sport possa scrivere chiunque, che basti un po' di mestiere per cavarsela e loro, avendone tanto e anche di più, avrebbero potuto fare sicuramente meglio. La realtà non è questa, perché lo sport è identico alla politica, alla cronaca nera e alla giudiziara: richiede serietà, onestà intellettuale e professionale. Nello sport, definire un tecnico o un c.t. (come nel servizio che ho trascritto sopra) non è assolutamente la stessa cosa, sarebbe come definire un pm un procuratore generale; riportare le dichiarazioni di James Duncan (anziché Tim Duncan, uno dei due più forti giocatori della Nba: è successo anche questo) sarebbe come chiamare Berlusconi con il nome di battesimo di Prodi. Ma non importa, nel giornalismo sportivo vale tutto, di giornalismo sportivo si occupa un gruppetto di cialtroni o di incolti a cui può solo giovare ritrovarsi immersi in un po' di grande professionismo.

Tutte le prime firme che son venute fino ad Atene per una bomba che non è mai esplosa si son dovute sorbire Italia-Nuova Zelanda di pallacanestro e hanno girato con gli occhi fuori dalle orbite tra le finali di specialità della ginnastica artistica. Una noia? Un problema? Macché, qualcuno aveva già scritto per loro.

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