Elaborazione grafica di Guido Nestola

31.10.04

Io non ti guardo negli occhi

Ricevo da Claudia Provvedini (che si sta entusiasmando all'idea di bloggare, attraverso Fuori dal coro) e molto volentieri pubblico, a proposito di uno spettacolo teatrale in scena a Milano fino a questa sera:
Con i libri osannati dalla critica è sempre successo: il pubblico dei lettori poi ne salva un capitolo e sarebbe pronto a bruciare il resto. Con le rappresentazioni teatrali è un fenomeno relativamente nuovo e comunque più difficile è esprimere una reazione analoga da parte dello spettatore. Insomma, non si può buttare via o bruciare una sala (se è successo, finora, è stato per dei teatri interi e per altre ragioni, vedi Petruzzelli e Fenice). Dunque, se uno spettacolo non funziona, che fare? Stiamo parlando del lavoro Io ti guardo negli occhi, ma soprattutto della mancata comunicazione in esso tra gli attori e il regista. Da una parte, infatti, c'è un'idea diciamo strategica di far muovere un gruppo di persone in uno schema, più che in una storia: quella sembra secondaria, sembra affiorare qua e là, come se improvvisamente sia il regista sia gli attori si ricordassero di appartenere ad una traccia, come su un disco. Dall'altra, ci sono questi uomini e donne, tipicizzati al massimo, come in certe favole dell'Est. Che fare? Sull'impiantito inclinato e provvisorio del Teatro Studio il pubblico cavalcava verso l'uscita: un'emorragia. Bravi! Gli spettatori, naturalmente, liberi di non essere borghesemente educati.

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27.10.04

In cerca di Pedro

Marguerite Yourcenar scrive nei suoi taccuini a proposito di Memorie di Adriano:
Nel dicembre del 1948 ricevetti dalla Svizzera - dove l'avevo depositata durante la guerra - una valigia piena di carte di famiglia e lettere di dieci anni prima. Sedetti accanto al fuoco per venire a capo di quella sorta di orribile inventario post mortem. Trascorsi così, tutta sola, parecchie sere. Aprivo pacchi di lettere prima di distruggerle, scorrevo quel mucchio di corrispondenza con persone dimenticate e che mi avevano dimenticato: alcuni vivevano ancora, altri erano morti...
Aprii quattro o cinque fogli dattiloscritti: la carta era ingiallita. Lessi l'intestazione: "mio caro Marco..."
Di quale amico, di quale amante, di quale lontano parente si trattava? Non ricordavo quel nome.
Mi ci volle qualche momento perché mi tornasse alla mente che Marco stava per Marc'Aurelio e che avevo sotto gli occhi un frammento del manoscritto perduto. Da quel momento, per me non si trattò che di scrivere questo libro, a qualunque costo.
Tutto ci sfugge. Tutti. Anche noi stessi. La vita di mio padre la conosco meno di quella di Adriano. La mia stessa esistenza, se dovessi raccontarla per iscritto, la ricostruirei dall'esterno, a fatica, come se fosse quella d'un altro. Sono sempre mura crollate, zone d'ombra...

Il brano trascritto fa parte del programma di sala di Memorie di Adriano, che un Giorgio Albertazzi scarno, finalmente poco autocelebrativo e dalla recitazione essenziale, quasi un racconto i cui toni vengono ottenuti per sottrazione, sta portando in scena in questi giorni al Teatro Strehler di Milano. Poco prima, avevo visto La mala educacion, il film di Pedro Amodòvar che parte dallo stesso presupposto: una lettera, che viene consegnata solo alla fine del film alla vittima inconsapevole di un gioco al massacro di minacce, torbide passioni omosessuali e biechi interessi personali; un racconto perduto e ritrovato (La visita), se non in verità trafugato dal fratello della vittima, un travestito, di un omicidio causato dall'attrazione fra due uomini.

La coincidenza, in realtà, non si ferma qui. L'omosessualità che pervade pesantemente il film di Almodòvar è la stessa che tocca delicatamente Le Memorie della Yourcenar nel rapporto eletto e disperato fra l'imperatore - uomo moderno per eccellenza nella Roma classica e poi trasformatosi in modello classico di virtù, in quanto amante della cultura e della pace, della libertà e della democrazia - e Antinoo. Non vorrei sembrare pedante, ma tra l'una e l'altra c'è un abisso di sensibilità, di misura, di equilibrio. Nel merito e nel metodo.

Nel merito, perché quella de La mala educacion conduce al nulla, all'annichilimento per interesse, al vuoto che vanifica anche il sentimento eventualmente più puro, quello che rimane fra la vittima e il suo primo oggetto d'amore, il regista al quale il fratello (un Gael Garcia Bernal clamorosamente tozzo) consegna il racconto che diventa sceneggiatura, spacciandolo come proprio. Il legame che unisce Adriano al suo più giovane amico è invece l'espressione piena della natura, della purezza, dell'essenza dell'uomo anche nel suo desiderare un altro simile dello stesso sesso. Così, se nel film la morte è uno strumento da usare senza guardarne gli effetti direttamente (i due assassini consegnano la dose letale alla vittima, che chiede di essere lasciata sola non conoscendone gli effetti tragici), a teatro e nel capolavoro letterario della Yourcenar va "accolta a occhi aperti".

Nel metodo, perché il film di Almodovar, a cui evidentemente piacciono i melodrammi e non fa più nulla per nasconderlo anche in un film come questo nel quale raggiunge livelli di doloroso distacco dalla materia che tratta, è incostante; neanche tanto originale quando sovrappone la realtà alla fiction, riproducendo il cinema nel cinema; si perde nel tentativo di usare tanti spunti (la pedofilia tra i preti, l'innamoramento tra bambini, il rapporto edipico, i fratelli-coltelli, l'antierotismo dei rapporti sessuali così marcati da non essere né visti né tantomeno immaginati, ecc.) perdendoli per strada, a volte per scelta, altre per discontinuità.

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26.10.04

Dannati senza confini

In realtà, il post si potrebbe anche intitolare Non sottovalutare le conseguenze dell'amore. Nulla di nuovo? Già dato? Appunto. Perché anche La sposa turca rttorna su questo argomento diciamo pure hit della stagione cinematografica. Lo fa partendo dalla Germania e arrivando a Istanbul, anzi in un entroterra montuoso della Turchia che un originale gruppo di corifei in costume tradizionale adagiati su un tappeto di tappeti sulle rive del Bosforo lascia immaginare, in un vero e proprio viaggio dentro gli inferi di città che vivono, si perdono e si dannano di notte: plumbea quella tedesca, quasi glamour la capitale della Turchia vista dall'alto del Grand Hotel Marmara, all'imbocco di Taksim.

Non un capolavoro, tale da giustificare l'Orso d'oro all'ultima Berlinale, ma comunque una pellicola da vedere. Soprattutto per la straordinaria faccia segnata, alla Mickey Rourke, di Birol Unel, il protagonista maschile, redento dall'amore e dal desiderio nei confronti di una donna molto più giovane e libera di lui. Così libera, da promettergli di aspettarlo all'uscita da una prigione nella quale era finito a causa sua, e non tener poi fede all'impegno, poiché ingabbiata in quella morale borghese (avendo una figlia e un nuovo compagno) tipicamente nordeuropea da cui era fuggita chiedendogli di sposarlo dopo averlo incontrato in un ospedale psichiatrico a seguito di un tentativo di suicidio, e che sembra invece sopravviva anche in Turchia. Tutto con una colonna sonora, quella sì, eccezionale.

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In casa mia

Non so se ci sia ancora qualcuno, in Italia o da queste parti (che non è la stessa cosa...), che si interroghi sui rapporti tra weblog e giornalismo. Mi sembra, però, utile segnalare quel che si è verificato, mio malgrado, su questo blog nel commento a un post. Due frequentatori si sono confrontati su un avvenimento, ciascuno riportando una versione. L'episodio è lo stesso, ma viene descritto in due maniere differenti, a seconda dell'esperienza di chi vi ha assistito: la conoscenza diretta dei protagonisti del fatto, la conoscenza di talune loro abitudini, ecc.. Senza che io lo volessi, si è fatta cronaca; a questa è seguita un'opinione; e anche a quest'ultima ha corrisposto una contropinione.

Interessante esperimento sul campo, a cui però mancano alcune condizioni sostanziali perché si giunga a conclusioni efficaci e credibili: le dichiarazioni dei diretti interessati. Non conoscendo il nome del fotografo, non sarebbe utile che, per purissimo caso, i Wu Ming coinvolti lasciassero a loro volta una traccia?

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La logica delle parole

Ancora a proposito di Parola, scrive Piero Bianucci, su un Ttl di non so più quanto tempo fa, a proposito di Le menzogne di Ulisse di Piergiorgio Odifreddi:
La logica ha il ruolo di smontare quelle sublimi trappole che il pensiero e il linguaggio costruiscono, rimanendo poi prigionieri di concetti, come essere, infinito, verità. "Fino a quando la cosa si mantiene nel sano ambito della logomachia e della logopaidia, cioé della battaglia o del gioco di parole, tutto va bene - conclude Odifreddi -. Ma quando si soffre di logopatia o di logolatria, cioé di ptologia o di adorazione del linguaggio, allora diventano necessarie una logopedia o una logotomia, una rieducazione o una asportazione del logoso, che solo la logica ha dimostrato di saper effettuare".
Insomma: la logica non si limita a far piazza pulita della metafisica, ma è una "redentrice del peccato originale del linguaggio, apparsa sulla Terra per riscattare chi parla e chi pensa".

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25.10.04

La parola alla Parola

Avrò avuto sette o otto anni. Non ricordo in quale occasione, la mia famiglia andò a Roma e una delle prime tappe del viaggio fu quella alle Fosse Ardeatine. Nella memoria, riappare l'immagine di una lapide su un muro di mattoni a vista, in un luogo un po' tetro, e il racconto di mio padre di quello che accadde lì. Non so se quella lapide esista e se quel luogo fosse davvero tetro, ma le Fosse Ardeatine rappresentano una delle prime lezioni dal vivo di Storia a cui abbia partecipato.

Sarà per questo che mi appassiona, quasi mi entusiasma, assistere ogni volta a Radio Clandestina, il bellissimo monologo di Ascanio Celestini. Com'è successo una settimana fa, nottetempo, su Rai2. E sottolineo "nottetempo", non tanto perché la trasmissione sia andata in onda a mezzanotte e cinquanta, ambientata nel museo ebreo di via Tasso, quanto perché a quell'ora era sufficientemente lontana dagli occhi e dalle orecchie di quei telespettatori che, qualche sera più tardi, hanno assistito all'agiografia in seconda serata di Benito Mussolini, apparecchiata da Bruno Vespa; ed era adeguatamente nascosta all'attenzione delle giovani generazioni, agli studenti con i pantaloni a vita bassa o ai teppisti dell'allagamento facile, a cui i revisionisti storici di governo stanno raccontando tutta un'altra Storia da quella realmente accaduta.

E sarà per questo che Ascanio Celestini mi appassiona, quasi mi entusiasma, anche oltre Radio Clandestina. Scenografia minima (una lampadina, lo scheletro di una porta, una sedia), accento romano, Celestini è la parola che si fa scena, l'oralità che diventa spettacolo civile, la drammaturgia che nasce dalla verità dei fatti. Qualche mese fa, ho assistito al saggio finale di un suo laboratorio al Dams di Bologna. Con alcuni studenti, Celestini voleva realizzare una drammaturgia attraverso l'uso delle fonti orali, per rispondere alla seguente domanda: E' possibile costruire una storia a partire dalla storia di una persona? L'argomento era la vita nell'ospedale psichiatrico di Bologna prima e dopo la legge Basaglia, ricostruita attraverso le testimonianze di una ausiliaria, uno psichiatra che aveva lavorato in quel manicomio e ora presta servizio in un Centro di salute mentale e un'infermiera che aveva assistito quel medico.

Attratto dalle questioni della Parola, gli chiesi quali usasse, quali preferisse, come si potesse compiere nella sua esperienza la trasposizione dalla testimonianza individuale al testo teatrale pubblico. Ho ritrovato gli appunti che raccolsi durante le sue risposte:
  • Una storia si racconta mediante una visualizzazione: in questo modo, si sollecita l'immaginazione (nel senso di ricorso alle immagini) dello spettatore. Per dire, devo vedere
  • I testimoni contribuiscono a costruire la storia, ma non sono la storia né i suoi personaggi: anzi, i loro racconti devono portare, se possibile, a creare dei personaggi diversi attorno ai quali sviluppare la drammaturgia
  • Il testo non deve derivare da una scrittura, ma da un ascolto: se una storia si racconta, questo aiuta a trascriverla meglio
  • La memoria è personale, la sua ricostruzione ha un effetto distorcente della realtà: nei due anni che ho dedicato alla realizzazione di Fabbrica, sono emerse delle contraddizioni molto forti nel materiale che avevo raccolto nelle testimonianze
  • La qualità della voce non sta solo nella sua sonorità. Ma anche nella scelte delle immagini, nelle pause, nelle digressioni, nelle ripetizioni
  • La ripetizione tende a ridurre le parole, a sottrarre; non serve più a imparare a memoria un testo
  • Nella costruzione di una storia, non dev'esserci un limite di tempo. L'unico limite sta nel fatto che un racconto inizia. Sono i luoghi, gli spazi, i percorsi immaginati e lasciati immaginare a definire i confini di una storia.

Al centro di tutto questo, dunque, sta la parola. La parola di chi descrive, ricorda, ricostruisce. E la parola di chi la tramanda, la inserisce in un contesto, la riduce all'essenza dell'immagine. E' uno dei pochi modi che ci restano, e Celestini è uno dei suoi ultimi interpreti, per evitare il tracollo della parola descritto con preoccupazione venerdì 15 ottobre da Mario Luzi a Renzo Cassigoli e Valentina Grazzini in un'intervista per l'Unità:
Domanda: Non è un bel momento, Professore. Le parole sembrano perdere sempre più il loro significato: e così le vittime si fanno carnefici, in guerra muoiono ormai quasi solo civili, i mercenari passano per eroi e chi si impegna per la pace è deriso e insultato. Che ne pensa il Poeta di questo tempo capovolto?
Luzi: E' un soqquadro. Le parole hanno perso il loro corrispondente. Sembra quasi di vedere un orologio impazzito in cui le lancette non riescono più a segnare l'ora giusta. E' la crisi di credibilità della Parola. on è cosa nuova, l'abbiamo denunciata da un bel po'. E' qualcosa che il poeta sente, avverte, perché la parola gli appartiene, la attua quando cerca di farla corrispondere a una cosa, a un'idea. E' bisogno di autenticità, di ritrovare il nesso profondo e unico fra la parola e la cosa, fra la parola e la spiritualità. Un problema che il poeta si è posto in particolare negli anni più recenti in cui la corruttela si è fatta più forte, più arrogante. A un certo punto pensi che anche il tuo linguaggio si riferisca a un'umanità che quasi non c'è più o rischia di non esserci più.

Celestini ha presentato un estratto dell'ultimo spettacolo, Scemo di guerra, andato in scena al Teatro Verdi di Milano fino a questa sera (ma altri suoi testi saranno presentati nei prossimi giorni), durante Outis, un festival della drammaturgia contemporanea, dedicato quest'anno in buona parte alla traduzione. Poche sere prima della sua lettura scenica, avevo assistito a Epistola ai giovani attori - sottotitolo Perché sia resa la parola alla parola - di Olivier Py, con un bravissimo Giancarlo Dettori. E' una lunga arringa in difesa della parola, recitata da un Poeta abbigliato come un'antica Tragedia (un vestito lungo da donna tempestato di strass), che si difende dall'accusa di un gruppo di pericolosi agenti moderni: l'Addetto alla Cultura, il Poliziotto del Desiderio, il Ministro della Comunicazione, ecc. A metà della piéce, la Tragedia afferma:
Angeli del cielo, salvateci.
Si sta preparando una generazione di schiavi. Quello che è accaduto negli ultimi anni è peggio di un genocidio. E' stata rimessa in discussione, e definitivamente, la virtù della Parola; è stato tolto ogni valore alle forze simboliche (...).
Un mondo in cui le parole non hanno più nessun valore - nemmeno il valore dei tre soldi di saliva umana che le portano - un mondo in cui non si può avere niente dicendo "Vi do la mia parola", un mondo in cui regna l'ossessione della menzogna, è un mondo di pazzi.
Le parole hanno valore solo in un accordo tacito, inesprimibile, irrazionale: chiamiamolo amore. Tutte le parole sono parole d'amore, è nell'amore che le parole trovano il loro potere taumaturgico. Ma un mondo in cui le parole non hanno più valore ha un nome: si chiama inferno
(...) La Parola è Promessa.
La Parola è l'amore che si incarna nell'oralità sotto forma di Promessa. (...) Tra uomini, quando tacciono i bisogni, resta da condividere la vita, la gioia, la Speranza. E' vero che la speranza può vincere la morte, finché passa da un cuore all'altro non c'è pericolo che la morte la raggiunga. (...) quando l'esercizio della parola è svilito alla comunicazione animale di un bisogno, quando si dubita che ci sia la Parola nella parola, quando si disprezzano i termini, quando si infanga il lirismo, si assassina il fatto umano nella sua più grande virtù.

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16.10.04

L'arte del recensire - 3 / Sedici righe

Ho assistito alla prima di La Scimia, il nuovo spettacolo teatrale di Emma Dante. Non mi ha entusiasmato e lo stesso era accaduto a molti dei critici che ne avevano scritto dopo la presentazione alla Biennale di qualche giorno prima, evitando però di essere troppo diretti. Avendo ancora negli occhi lo strepitoso Carnezzeria della stessa compagnia e della stessa autrice, ho avuto la sensazione di un deja vù, senza però il mordente dell'originale, come se il tentativo di scavare nei tabù di certa borghesia siciliana avesse già raggiunto il fondo senza trovare nuove soluzioni, se non quella di stupire fine a sé stessa.

Fin qui io. Ho chiesto alla mia amica Claudia Provvedini, cronista teatrale del Corriere della Sera, di regalarmi la sua critica dello spettacolo, peraltro mai pubblicata. Il risultato è questo piccolo capolavoro:
Uno spettacolo diviso, La scimia: linguaggi diversi che parlano per conto proprio non creano dialettica, ma divisione. La "famiglia" di attori di Emma Dante costruisce all'inizio una concentrata visione di oscurantismo, bigotteria, carnalità clandestina e repressa nel quartetto delle due zitelle e dei due preti. Il loro alternarsi sulle sedie - seduti, in piedi, scambiandosi i posti freneticamente - ha il ritmo di un Crave della Kane, anche se non genera combinazione di storie tra le figure. La prepotenza degli oggetti, dalle croci alle noccioline, è figlia del teatro espressionista dell'est e di quello barocco di Barba, con una pepatura marcata sud italiano, Sicilia in particolare, che mette in evidenza il rapporto fisico tra l'attore-uomo e l'attore-oggetto, stressandolo fino al punto di farlo diventare astratto. Ma quella tensione quasi metafisica si spacca con l'ingresso dell'uomo-scimia. Concessione al voyeurismo, esibizione, virtuosismo, mimesi realistica: è il pene esposto che fa ridere il pubblico? È l'immedesimazione nell'animale? Fatto sta che arretrano sullo sfondo l'ironia beffarda, la sofferta architettura delle relazioni umane distorte, l'angoscia che trasmetteva Carnezzeria, e già Mpalermu. Perché Emma Dante ci è andata giù così pesante nella descrittività da suscitare persino noia. Non avremmo voluto vederla la scimia, lo scimio: la violenza, il sesso sono il terremoto sotterraneo del lavoro di Sud Costa Occidentale e, nel nuovo, non esplodono né fanno tremare la scena: disturbano.
Spero solo che Claudia prenda la buona abitudine di farmi altri regali del genere.

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L'arte del recensire - 2 / La critica della critica

Ho trovato una risposta alle seconda parte delle perplessità espresse nel post precedente (se, in quanto spettatore tipo, io possa esprimere una critica credibile e accettabile) nel diario veneziano di Guido Chiesa, regista di Lavorare con lentezza, pubblicato su Giap, la newsletter dei Wu Ming che del film sono stati co-sceneggiatori.
Verso le 0.40 (proiezione stampa ritardata di mezz'ora perché il film precedente era iniziato con un'ora di ritardo perché quello prima…) ci giunge notizia che i critici hanno applaudito il film, a dispetto del fatto che, prima dell'inizio, ci fosse in sala chi andava dicendo che il film era una merda, prima ancora di averlo visto…
La notizia dell'applauso ci giunge un po' a sorpresa perché nei giorni precedenti le proiezioni per la stampa a Milano e Roma, pur avendo registrato l'apprezzamento di numerosi addetti ai lavori, avevano pure segnalato il disorientamento e il malumore di alcuni critici verso un oggetto che sfugge a molte delle categorie che sono soliti utilizzare. E, soprattutto, che rifugge (orrore!) spiegazioni didattiche, intenti pedagogici e (orrore degli orrori!) l'unità stilistica!
Nei giorni successivi alla proiezione veneziana, queste perplessità della critica mi verranno nuovamente riferite, anche se, in ogni caso, circolerà attorno al film un'atmosfera (positiva) di film "diverso", comunque interessante.
Il problema della critica, soprattutto italiana, è complesso e non può essere certo esaurito qui. Ma la sensazione principale che emerge da quanto letto e ascoltato in questi giorni è che, di fronte alla molteplicità dei discorsi (linguistici e non) che abbiamo, volutamente e coscientemente, inserito nel film, ci sia sempre qualcosa che convince e sempre qualcosa che non convince gli addetti ai lavori. Come se l'esercizio della critica consistesse nel dire che c'è qualcosa che funziona o non funziona in questo o quel testo. Con la curiosa capacità poi di indicare tutto e il contrario di tutto: bello il pretesto narrativo, debole il pretesto narrativo; delude il finale, eccellente il finale, ecc..
Ma è veramente questa la funzione della critica? Mah...
Eppure, si sa, sono pagati per scrivere qualcosa.

Certo non perché sia spaventato da queste considerazioni, alcune delle quali anche abbastanza banali e inutilmente qualunquiste, a me il film è piaciuto. Perché è un film onesto, militante ma senza eccessi, schierato ma con juicio. Perchè, partendo da Radio Alice e dal movimento degli studenti bolognesi del '77 con tutto il suo portato politico e filosofico, sviluppa una storia universale, di ragazzi e ragazze di ogni tempo che misurano sulla propria pelle il conflitto tra la ricerca della libertà sessuale e la necessità di conservare la proprietà dei sentimenti, propri e della persona che amano e vorrebbero possedere. Perché è originale nell'uso di alcuni accorgimenti narrativi (i siparietti da film muto, stile corazzata Potomkin, per descrivere il processo di costruzione politica della radio, per esempio). E soprattutto perché, pur badando molto all'unviersalità di cui sopra, conserva una cura ammirevole per la ricostruzione, storica e soprattutto degli ambienti e del clima (anche se, per esempio, è stato notato che i libri, e le intere collane Einaudi di cui fanno parte, che i protagonisti leggono non erano ancora stati pubblicati nel '77) in cui si svolge la vicenda: gli interni da Centro Sociale, il cuore universitario di Bologna che spesso, nella mia immaginazione, ha continuato a pulsare nelle mie recenti continue visite come allora.

Pochi giorni prima, avevo visto un film che considero tra i più belli degli ultimi anni, Machuca, film di formazione di tre ragazzini divisi dal ceto sociale nel Cile del golpe di Pinochet. Teso, commovente eppure capace di non far stillare una lacrima e di lasciare una particolarissima sensazione di sdegno (bruxato, complesso, non immediato e proprio per questo ancora più profondo), recitato splendidamente da tre mini-attori. Ma con un paio di cadute madornali: una, la sfocatura del corso di un fiume che non c'entrava nulla nel momento in cui uno il bambino ricco bacia per la prima volta la vicina di casa e giochi del bambino povero; due, l'insistenza nel passaggio dell'inquadratura davanti ai murales degli Anni 70 o sulle prime pagine dei giornali dell'epoca. Come se non fosse sufficientemente forte quello che i personaggi stavano rappresentando.

Eppure, nella stessa newsletter, Wu Ming 4 mi stronca al primo respiro. Scrive:
Nonostante il sottotitolo imposto dalla distribuzione, quello che abbiamo scritto insieme a Guido Chiesa non è un film su Radio Alice.
Non è una ricostruzione storica filologicamente corretta di fatti e circostanze (con la sola eccezione dell'omicidio Lorusso, per il quale ci siamo attenuti alla documentazione fornitaci dal legale della famiglia).
Non è nemmeno un film sugli anni Settanta.
Lavorare con lentezza è un film di rapina, ambientato negli anni Settanta, che ha le vicende di Radio Alice come sfondo. Personaggi ed eventi si ispirano ai racconti e alle testimonianze dirette, ma non pretendono di ricostruirli fedelmente. Il gioco del "quello sono io, quello sei tu..." sarebbe stato insostenibile, visto che i protagonisti di quella piccola epopea sono tutti qui.
Il 1977 che vedrete nel film è il "nostro" 1977, un'epoca in cui Guido, il più vecchio di noi, aveva sedici anni e il sottoscritto ne aveva quattro. Noi non c'eravamo, ma ci è piaciuto vederlo così.


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L'arte del recensire - 1 / Maestri

Binario loco, bontà sua, mi ha invitato a far parte di una futura iniziativa dedicata al cinema. A lui interessano le mie fugaci considerazioni su alcuni dei film che vedo e, in nome della libertà di critica concessa dalla rete, vuole coinvolgermi in un progetto indipendente a più mani.

Mi sono chiesto se io sia davvero in grado di sostenere un ruolo, sia pure secondario e defilato, come questo. Se, cioé, un semplice spettatore quale io mi considero abbia il diritto e soprattutto gli strumenti, culturali e tecnici, per esprimere una critica compiuta, per poter dire in modo credibile: "Questo mi piace, questo no". E' la solita vecchia storia, sulla quale mi sono già espresso a proposito del rapporto fra blog e giornalismo: è la conoscenza e l'uso del mezzo a fare la differenza, non il mezzo in sé.

Naturalmente, mi sono anche chiesto quanto un eventuale nuovo ruolo (diciamo, pomposamente) ufficiale avrebbe potuto incidere sul mio modo di scrivere. B.George, agli albori del fenomeno weblog, mi allineò tra i tessitori di pensieri e parole: in questa definizione continuo a trovarmi, poiché cerco sempre collegamenti, allargamenti, occasioni trasversali. Il commento su un film, per me, s'incastra in una riflessione più ampia, la sfiora, diventa una causa oppure un effetto.

Mentre ero alla ricerca di risposte, mi sono imbattuto in due articoli-recensioni che mi hanno illuminato. Uno è quello di Bernardo Valli sull'ultimo libro di Rosetta Loy, pubblicata da Repubblica il 3 ottobre, dal titolo Con gli occhi sul passato. Comincia così:
Nero è l'albero dei ricordi, azzurra l'aria (...) spinge a considerazioni preliminari, introduttive, tutt'altro che superflue. Anzitutto il lettore, poiché di lui si tratta, del lettore, testimonia che le bozze, suddivise in tanti quinterni al fine di distribuirle in varie tasche (giacca, impermeabile) e quindi di poterle manovrare con facilità fuori dalla poltrona domestica, durante gli spostamenti, anche i più scomodi (in taxi, in piedi nella metro o nelle code d'attesa, nelle pause davanti al computer, al ristorante), hanno avuto su di lui un effetto ormai raro. Anzi rarissimo. Vista l'odierna avarizia dei romanzi. Le pagine della Loy gli hanno creato quell'isolamento dalla realtà circostante di cui, come lettore, è alla costante ricerca. Una ricerca affannosa e spesso vana, nelle librerie e nelle rubriche culturali dei giornali, condott con l'ansia di un disperato cane da tartufi perduto nell'asfalto della città. La caccia a una droga? Se lo è, è una droga leggera che dà una magica sensazione di solitudine.
Il colettivo dilaga ovunque, sommerge gli esigui spazi riservati a chi vuol resistere come individuo. Tutto è in funzione del gruppo, e tanto meglio se il gruppo diventa massa. Il branco domina.(...) Per non parlare dell'audience. Il fenomeno non è poi tanto nuovo.
In tempi remoti il poema epico non si rivolgeva, per la sua stessa natura, a più ascoltatori? Non era forse una forma di comunicazione tra il poeta e un pubblico aristocratico, anche se popolare? E ovviamente il dramma, in tutte le sue versioni, antiche e moderne, cinema compreso, esige il pubblico di un teatro. Ma si tratta di (preziose) quisquilie rispetto alle rappresentazioni che oggi attirano milioni di mosche-spettatori, terrorizzati dall'idea di restare soli. Come se la solitudine fosse la morte. La precedesse di poco. Un'anticamera fatale.

E via riflettendo. Uno splendido esempio dell'uso di categorie generali e considerazioni personali come uno specchio per esprimere il valore dell'oggetto della recensione.

L'altro articolo è a firma di Marco Di Capua, pubblicato sull'Unità dell'8 ottobre, sulla conferenza stampa di Moi! Autoritratti del XX secolo, una mostra che si terrà alla Galleria degli Uffizi di Firenze fino al 9 gennaio 2005. Anche in questo caso, l'attacco, originalissimo, è autoreferenziale eppure straordinariamente ecumenico:
La fila. Non sai esattamente di cosa si tratta se prima non l'hai vista formarsi e snodarsi, paziente e silenziosa come un animalone da preda, davanti a un museo. Quella è la fila. Davanti agli Uffizi non è impressionante come in certi giorni ai Musei Vaticani, quando non sembra nemmeno che la processione inizi a Roma ma in qualche altra città, però sembra proprio che non si muova mai. A Firenze la fila è immobile. Poi capisci perché o almeno ti dai una spiegazione, quando salti la fila uno (di quelli senza prenotazione) e salti anche la fila due (di quelli con la prenotazione) ed entri e sali le scale per andare alla conferenza stampa dove devi andare, e passi per le sale più stupefacenti del mondo, e ti accorgi che tutti si muovono al rallentatore come sulla luna, e capiti davanti ai capolavori beato e stremato e decidi, se hai fatto la fila, che da lì non te ne andrai mai più. Con i miei occhi: ho visto una signora che di fronte a ogni quadro leggeva lentamente, pesando le parole, tutte le pagine che gli avevano dedicato i manuali e poi, con le amiche, apriva il dibattito. Proprio così: "l'Argan" dice questo, il "Briganti" quest'altro...

Nulla passa in second'ordine, al contrario tutto ciò di cui si vuol parlare (e successivamente si parlerà) viene riportato a una dimensione reale, fruibile da chi legge, poiché vicino, non accademico, non calato dall'alto.

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8.10.04

Risvegli

Ascoltato a Radio3, ieri pomeriggio, Alessandro Bergonzoni mi ha entusiasmato due volte. Prima per l'iniziativa che ha sostenuto con energia, la sua energia, l'apertura di una Casa dei risvegli, dedicata ai pazienti in coma. Poi per il modo in cui ne ha parlato, rendendola letteraria, intellettuale, filosofica.

Dal 19, se non sbaglio, sarà in teatro a Bologna con un nuovo spettacolo. Andarci, mi sembra un'ottima idea.

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6.10.04

Propositi per il futuro

La scorsa settimana, ho cercato inutilmente tra i blog che frequento abitualmente qualche commento alla trasmissione su Retequattro dell'ultima intervista di Tiziano Terzani, Anam. Il senza nome, realizzata da Mario Zanot (oggi si proietta all'Odeon Cinehall di Firenze alle 20.30). Avrei voluto condividere la commozione che mi ha provocato quel documentario. Mi sarebbe piaciuto condividere la sensazione di pace interiore, di tolleranza e di apertura verso il mondo, verso l'altro, di qualunque genere, colore e pensiero sia, che Terzani era riuscito a trasmettere. Avrei desiderato confrontare l'idea di curiosità, il piacere per la scoperta, per la comprensione della diversità che quell'uomo con la barba bianca e un male dentro che lo avrebbe portato via di lì a poco emanava come una luce.

Nella vana attesa di un segnale, ho ripreso un libro che negli ultimi giorni mi ha appassionato, come non mi accadeva da tempo, Scrittura cuneiforme, di Kader Abdolah, edito da Iperborea. E mi sono imbattuto in queste due pagine:
Ma mio padre sapeva cosa fosse l'amore? Era consapevole del suo "essere innamorato"? Intendo dire: era in grado di capire di essere entrato nel mondo dell'amore? Il desiderare profondamente un'altra persona: avrebbe saputo spiegarlo? Il voler stare con lei, tenerle la mano, respirare l'odore dei suoi capelli, possederla.
Bisogna averlo letto da qualche parte, bisogna averne sentito parlare o parlato, altrimenti non puoi sapere quello che ti sta succedendo.
C'è un antico libro persiano che parla dei viaggi di Molla Nasredin. Per capire il senso della vita, Molla viaggia a piedi per il mondo. Alla porta di Hamadan vede una folla, uomini, donne, bambini, cammelli, asini, cavalli, capre e galline che corrono tutti dietro un giovanotto. Il giovanotto piange, balla e balbetta parole incomprensibili. Poi si lascia cadere a terra e si rialza. Piange ancora, ride, corre e si getta della terra in testa.
Molla ferma un rozzo anziano: "Dimmi fratello, che cos'è successo a quel ragazzo?"
"L'amore si è impadronito di lui. E tutti vengono a vedere per fare conoscenza con l'amore".
(...) In realtà, come persiano, non hai bisogno di avere conosciuto l'amore. Ovunque, nei racconti persiani, nei miti e perfino nel libro sacro, si parla d'amore. Come qualsiasi persiano anche Tine doveva conoscere la storia di Sjeeg e la Tarsa.
Sjeeg, il vecchio capo sufi, sta andando a piedi alla Mecca con migliaia di suoi seguaci. Sono in cammino da mesi. In una di quelle città straniere, Sjeega incontra al bazar una giovane e bella tarsa (donna cristiana) e se ne innamora all'istante. Cosa peggiore non poteva capitargli: essere in cammino verso la Mecca e innamorarsi di una tarsa! Sjeed lascia perdere la Mecca e va a piedi nudi alla ricerca della ragazza.
"Sjeeg è caduto!" risuona in tutto il mondo musulmano.

Trovo che sia una bellissima risposta da suggerire al protagonista di Le conseguenze dell'amore (uno straordinario Toni Servillo), il film di Paolo Sorrentino che ho trovato eccellente per tre quarti della durata. Prima della virata noir della conclusione, l'atmosfera algida, tutta di testa, fa scorrere sotto traccia - e stimola a immaginare - gli intarsi sentimentali, l'attrazione e la passione per una giovane donna nell'animo di un personaggio, un cassiere della mafia ha esiliato in Svizzera da dieci anni al ruolo di riciclatore di denaro per rimediare a un "buco" del passato, che apparentemente invece rinuncia a pensare e si chiude in un isolamento e in un silenzio per i quali è disposto anche a morire.

"Propositi per il futuro: non sottovalutare le conseguenze dell'amore" annota appunto Titta De Girolamo, il protagonista. Lo stesso proposito che dovrebbero fissare anche i due protagonisti di La vita che vorrei, operina un po' stanca di Giuseppe Piccioni che non ritrova nella coppia Sandra Ceccarelli - Luigi Lo Cascio l'intensità che aveva dato un senso al precedente Luce dei miei occhi, malgrado la buona idea di partenza di intrecciare il film nel film, trasformando la controversa storia d'amore dei due personaggi in una prosecuzione della loro recita in una fiction in costume, anche abbastanza improbabile.

Tra i silenzi, le pause, gli sguardi vuoti eppure così pieni di Servillo e i primi piani insistiti sul sentimento inespresso e inesprimibile, prigioniero dell'egoismo e della vanagloria, di Lo Cascio e della Ceccarelli, un pochino più espressiva nel ruolo di un'attrice che lascia adito all'equivoco, corre una differenza che, in tempi di magra per il cinema italiano, mi fa gridare appunto all'eccellenza.

Non siamo nella Persia antica, del resto, e sembra che per i nostri registi sia proprio impossibile trovare spazio in una storia d'amore per quello splendido gesto con il quale Terzani si è congedato dal suo ultimo intervistatore e dalla vita: una risata.

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5.10.04

Amici

Ho sempre considerato Gianmaria Vacirca, che conosco da quando era il tuttofare di Telebasket, un talento inguaribile. Uno di quelli con tante belle idee che fan presto a diventare troppe. Sa scrivere, è appassionato, attento, curioso. Credo che nel suo blog, aperto da qualche giorno, lo farà sentire, vedere e provare.

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Chez Albertini

Alla fermata dall'autobus, un paio di giorni fa, in una via del centro di Milano, a poca distanza dal Tribunale.
Mi si avvicina un uomo, uno di quelli che ormai per comodità definiamo "albanesi" nella migliore delle ipotesi, "zingari" nella peggiore. Ha la barba lunga e uno sguardo che ormai per comodità definiamo "equivoco" nella migliore delle ipotesi, "da delinquente" nella peggiore. Bofonchia qualcosa, sollevando una busta plastificata che contiene alcuni fogli. Io, preso dalla lettura di un volantino, giro lo sguardo verso di lui, lo ascolto distrattamente. Mi sembra di capire: "Scu... ra ... lavoro". Mi starà chiedendo quello che ormai per comodità definiamo "elemosina" nella migliore delle ipotesi, "rottura di coglioni" nella peggiore. In automatico, gli rispondo "No" scuotendo la testa infastidito e porto la mano alla tasca posteriore destra dei pantaloni, controllo il portafogli.
Torno al volantino, l'uomo si allontana senza battere ciglio e si dirige verso una ragazza che attende l'autobus, come me.
In una frazione di secondo mi passano nella testa i seguenti tre pensieri:
  • se davvero avesse chiesto l'elemosina, non avrebbe usato la parola lavoro

  • è ben strano che chieda lavoro a me, a una fermata dell'autobus

  • dopo che gli ho risposto di "no", non ha insistito neanche un attimo in più.

Il quarto pensiero svela l'enigma. In una parte remota del mio cervello, qualcuno che lo abita ha sentito distintamente questa frase: "Scusi, la Camera del Lavoro?". Guardo di nuovo l'uomo. Non ha ancora cominciato a rivolgersi alla ragazza. Gli dico: "Senta, ma mi ha chiesto dov'è la Camera del Lavoro?". Lui: "Sì". Io: "Scusi, non avevo capito. E' qui vicino. Allora, deve...". L'uomo si avvicina, segue la mia spiegazione. Annuisce, mi ringrazia. E mi tende la mano. Io resto interdetto, stupito, confuso. Gli tendo la mia mano. Lui la stringe forte e se ne va.

Volevo solo dormirle addosso Un elemento ha accomunato quell'uomo a me: la consapevolezza. Consapevolezza dei ruoli, della diffidenza quotidiana, dei pregiudizi e delle aspettative che quei pregiudizi possono lasciare irrealizzate, in una grande città del nostro grande Paese, nella quale il tormentone su cui si basa il divertente film Volevo solo dormirle addosso ("Ti stimo molto", dice il protagonista a chiunque, anche alla sua compagna di letto dopo aver trascorso la notte addosso a lei, appunto) non è purtroppo una battuta ma un modo abituale di salutarsi. Al punto che, di fronte a un semplice gesto di attenzione, quell'uomo si è sentito spinto (forse per sua abitudine, non certo mia) a ringraziare con un altro gesto, fisico, intimo; a scambiare quello che in una chiesa credo tutt'ora si chiami un segno di pace.

Ripensavo oggi a quel che mi è accaduto, leggendo l'editoriale di Armando Torno sulla prima pagina della cronaca milanese del Corriere a proposito dell'idea di istituire un garante per l'estetica per la città. A differenza del solito, condivido l'analisi rassegnata:
Milano non riesce più a curare se stessa: i grandi progetti vengono ormai presentati come eventi straordinari, invece per una metropoli dovrebbero essere la normalità; la cura delle piccole cose è sostanzialmente disattesa e gridiamo al miracolo quando qualcuno se ne preoccupa.

Ma poi non riesco ad accettare la conclusione:
(Il garante per l'estetica) Dovrebbe essere anche la voce dei cittadini per i problemi che vanno dal traffico ai trasporti, dai servizi al controllo del paesaggio urbano, la cui trascuratezza è fonte di abbrutimento. Già, i cittadini. Sembrerebbe che a volte non riescano più a capire gli amministratori e questi ultimi pare che sovente si dimentichino degli amministrati. Per qualcuno il garante potrebbe essere una figura in più da sopportare. Sarà. Ma, detto tra noi, che cosa costa tentare anche questa carta?

E' proprio la logica del "cosa costa" che non è più accettabile. Che cosa costa sorbirsi altri cinque anni di Albertini e di giunta imbalsamata dalle spinte contrastanti dei partiti? Che cosa costa pensare di avere un sindaco-non sindaco, purché sia di sinistra? Che cosa costa nominare un garante o un controllore, comunque lo si voglia chiamare, visto che chi dovrebbe amministrare non lo fa più e non ha alcuna intenzione di farlo?

Purtoppo costa molto. Il prezzo è la diffidenza, il silenzio, la chiusura, l'intolleranza nei confronti di chiunque, anche di chi prova a integrarsi cercando lavoro e mettendosi in regola; quella "stanchezza quotidiana" che sta facendo rinchiudere Milano in se stessa, nella convinzione di essere capace di andare avanti a prescindere, nella pre-sunzione del suo pre-giudizio: il giudizio di essere davanti, migliore, prima appunto. Ma da sola.

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