Elaborazione grafica di Guido Nestola

26.3.04

Bloc - Una risposta sportiva

A proposito del mio intervento su localizzazione personalizzazione dei blog (tema lanciato da Giuseppe Granieri), ricevo questo commento da Matteo Refini, curatore di un blog sulla squadra di basket Olimpia Milano.

Proprio in base alla mia esperienza con Ioelolimpia.com ritengo che tu abbia centrato il punto e che il tuo scetticismo sia assolutamente fondato.
Io e l'Olimpia dalla sua nascita (ormai 6 anni fa) è un blog programmaticamente tematico e locale: la mia ispirazione era un sito informatico USA ugualmente tematico e focalizzato, Macintouch. Ovvero fin dall'inizio non è stato un blog nell'accezione, che sembra oggi da superare, di "zibaldone" di pensieri personali.

Probabilmente è il tema o il periodo "storico" (decadenza del basket in generale e del basket milanese in particolare) o forse è la qualità non sufficiente del sito stesso ma come scrivi giustamente tu non si sono mai poste le condizioni per cui Ioelolimpia potesse essere una fonte di guadagno, un vettore ambito di pubblicità locale o una reale e sostenibile alternativa ai giornali locali sul basket milanese.

E proprio pochi mesi fa il mio sito di ispirazione, che era un sito professionale, denunciava la difficoltà di sostenere l'attività con un modello basato sulla raccolta pubblicitaria.

Condivido la tua chiusura: i bloc esistono già ma esistono su una base che rimane ancora di volontà e piacere personale e non certo "imprenditoriale".


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24.3.04

Cuochi da vetrina

Anthony Bourdain è una delle ultime scoperte letterarie. Capo chef alla Brasserie Les Halles di Manhattan, è l'autore di Il viaggio di un cuoco, appena pubblicato e molto ben promosso da Feltrinelli nelle ultime settimane con lo slogan del cuoco in viaggio per il mondo alla ricerca del piatto ideale. Io lo avevo già, come dire, visto all'opera in Kitchen Confidential, autobiografia picaresco-gourmand nella quale racconta come s'è redento dalla droga ed è diventato uno dei cuochi più alla moda della Grande Mela, non lesinando curiosità e pettegolezzi sul "dietro le quinte" delle grandi cucine, con un indubbio gusto per i dettagli rivoltanti, quelli che con una sola cucchiaiata tolgono tutta la poesia del cibo:
Trasformavo gli avanzi di bistecca in salade de bouef en vinaigrette, la pasta scotta e i contorni rimasti in allegre insalate di pasta, preparavo aspic elaborati e con le fette di arrosto avanzate creavo vassoi guarniti. Preparavo mousse, galatine, pàté, e tutto ciò che riuscivo a trasformare in qualcosa che la nostra anziana ma ricca clientela potesse ingollare senza lamentarsi.

Sgradevole, è vero, ma quanto meno Bourdain confessa la verità, smitizzando così una figura che negli ultimi anni, soprattutto in Italia ma non solo, si è affermata oltre ogni limite, umano e commerciale: quella del cuoco-immagine. Quel personaggio che appare in tv tre volte a settimana; discetta di ogni argomento (dal calo delle nascite alla crisi dell'università) sui quotidiani più diffusi; firma libri di cucina iperpatinati e, di conseguenza, ipercostosi. Il loro faccione campeggia sui depliants, in vetrina, appeso in ogni foggia ai muri del ristorante, o sulle brochures di corsi di cucina di ogni tipo: dal territorio al kosher, dal sushi al medioevale.

Peccato che, in tutto questo, non passi ormai più di un minuto al giorno in cucina e che le preparazioni del suo ristorante siano insapori, improponibili o semplicemente indegne del prezzo che la sua immagine costringe a pagare. Mi è capitata una disavventura del genere qualche sera fa al Bargello del Marchese, Hosteria dello Chef Rino Senatore, in Bologna. Sotto lo sguardo fotografico del buon vecchio Rino, ho assaggiato paccheri di Gragnano al ragù di cinghiale dal gusto indistinto, quasi come come quello delle preparazioni dello chef della mia mensa aziendale; mi è stato depositato in tavola un filetto di Chianina al Chianti che aveva le sembianze di un mattone da costruzione con una crema a base di cemento colorato; ho inaffiato il tutto con uno Zibibbo di Pantelleria prodotto dall'azienda di famiglia dello Chef, che gestisce anche le Tenute Caparzo in Toscana. Prezzo dell'operazione: 75 euro. Da pagarsi, infilando la carta di credito in una minicartellina personalizzata con l'immagine del solito Rino.

Qualche giorno più tardi, sono stato a Barcellona. La patria di Ferran Adrìa, è vero, l'inventore delle spume; ma anche uno dei luoghi in Europa nei quali si investe di più sulla cucina e su tutto ciò che le ruota attorno, da un punto di vista artigianale e industriale: dal design degli interni alla comunicazione. Lì nascono sempre nuovi locali, in cui non c'è solo curiosità per le tendenze, ma reale attenzione per il gusto: da creare, da plasmare, da istruire, molto più che da soddisfare.

Vicino al Mercado del Born, nel La Ciutadela, ad esempio, ci si deve mettere in lista d'attesa per entrare in Espay Sucre, dove i tre-piatti-tre salati sono gli antipasti, mentre i main courses sono i dessert. Il luogo non ha insegne luminose, dentro non ho visto foto di chefs alle pareti.

Non avendo trovato posto da Espay Sucre, ho ripiegato (si fa per dire) su Negro, uno dei nomi del Grupo Tragaluz, una catena di ristoranti eleganti-raffinati, contrassegnati da un dettaglio che si scopre solo passandovi del tempo: l'anonimato. Basta il marchio, della proprietà (che ha appena aperto un Hotel, l'Omm, forse un po' troppo pretenzioso: il titolo è quello del suono che si produce durante la meditazione), che fa stampare un magazine bimestrale gratuito di informazioni storico-culinarie sulle proprie attività, o del locale. La cucina è impeccabile, l'ambiente sempre accogliente. Da Negro, come da Aqua, ristorante a base di pesce sulla spiaggia di Barceloneta, dove ho mangiato dei capellini al nero di seppia e un filetto di sanpietro al forno con mandorle croccanti eccellenti. Prezzo dell'operazione, con un bicchiere di vino molto significativo: 38 euro. Il conto mi è stato consegnato con un mini pieghevole sul quale erano stampati i nomi e i recapiti di tutti i membri della famiglia Tragaluz. E il disegno di una forchetta stilizzata. Omm!

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23.3.04

La qualità dell'aria

Caro Giuseppe,
non credo che tu sia matto, né che soffra di attacchi di veteromovimentismo culturale. Forse anche tu, come me, hai l'impressione che ti sfugga qualcosa; anche tu, come me, provi quella che sensazione di incompiutezza che anche il "fare blog" in questa società ti lascia. Io comincio a credere che il problema non risieda più soltanto dentro di me o di noi, nel mio o nel nostro modo di comunicare, di cercare nuove forme, nuovi stili, nuovi ambiti; quanto fuori, in quello che mi circonda e in qualche modo mi influenza in quella ricerca. Tu, mi sembra a costo di sbagliare, hai un approccio più dinamico, diretto, da problem solver quale sei, credi ancora che la questione stia nel senso da dare allo strumento e soprattutto nel come si possa usarlo meglio d'ora in poi: quel fare blog più maturo di cui parli.

Rispetto la tua posizione, e condivido profondamente la necessità di personalizzare il più possibile i blog, rendendoli tematici. Ma la soluzione più importante che proponi, il Local Blogging, mi lascia molto scettico. Per una serie di motivi, alcuni dei quali hai ammesso tu stesso:
  • Gli spazi, geografici ed editoriali, dell'America sono ben diversi da quelli dell'Italia
  • La considerazione nei confronti dell'informazione nel nostro Paese è influenzata da convinzioni antiche, di forte sfiducia verso il sistema e i suoi attori

  • Malgrado le tue rassicurazioni, l'idea di un blogging locale sposta l'attenzione dal mezzo al fine del "fare blog", con un'inevitabile deriva professionistica e professionale, diciamo anche imprenditoriale o commerciale, ben rappresentata dall'affermazione di Paolo Valdemarin: I weblog non dovrebbero essere solo i sitini che conosciamo oggi, ma siti di qualsiasi taglia e forma gestiti con sistemi editoriali

  • Ancora Valdemarin aggiunge: Credo che sia venuto il momento di smettere di fare esperimenti e iniziare a costruire qualcosa di nuovo. Non un progetto da "in un paio di giorni l'interfaccia si fa", ma un progetto serio, ragionato e possibilmente sponsorizzato. Legittimo anche questo. Ma non so quanti, in Italia, immaginano realmente: a) che un weblog possa essere una fonte di guadagno; b) che un bannerino su un bloc (crasi di blog e locale) sia un investimento interessante o addirittura utile; c) che qualcuno consideri già i bloc sullo stesso livello, da un punto di vista di marketing e di promozione del marchio, dei giornali locali

  • Ho il timore che si stiano mitizzando un po' troppo i blogger americani "di punta": sono realmente pochissimi quelli che si sono lanciati in blog indipendenti e autofinanziati, e nella maggior parte dei casi sono giornalisti di professione, spesso freelance in un sistema che (all'opposto di quanto accade in Italia) non solo offre opportunità continue ai freelance ma li considera una risorsa

  • Per esperienza personale di molti anni nei giornali locali, ricordo quante volte sia fallito il tentativo di creare dei corrispondenti di quartiere, sia in città grandi sia in quelle piccole. Mancavano le nozioni fondamentali, spesso mancava l'idea elementare (e spesso non solo tra i corrispondenti improvvisati) di che cosa potesse fare notizia, ecc.

Ma quello che mi rende ancora più scettico è l'obiettivo dei blocs, l'argomento. Ho capito che tu non pensi a un giornale pieno di fatti locali, ma tenda ad aggregare per temi. Eppure è proprio questo che mi lascia perplesso, considerate anche le difficoltà che il Blog Aggregator attuale ha incontrato nel tentativo di sistematizzare materie di genere molto vario. Tu scrivi
Anche qui, la soluzione è semplice se si ha qualche idea. Se Tizio decidesse di raccontare i locali notturni a Milano, o i ristoranti dell'Emilia o le manifestazioni Jazz & Blues a Roma, otterrebbe immediamente il risultato. Gli addetti ai lavori comincerebbero a mandargli i comunicati stampa, la gente inizierebbe a cercarlo, ecc. ecc. Diffondere notizie, oggi, non è solo un compito di informazione: spesso è un servizio per chi ha bisogno di diffonderle.

Perdonami, ma qui non si può trattare di una o più idee, purchessiano. Se si vuole aggregare localmente, lo si faccia in maniera intellettualmente organica (quintostatescamente potri anche direi: con una logica e una valenza politiche), trovando uno o più temi "universali", che non possono essere la produzione musicale locale, la diffusione del teatro nel territorio o l'immagine dei negozi.

In questi giorni mi sono chiesto quale potrebbe essere un tema universale e in parte, almeno come enunciato filosofico, ho trovato la risposta nella prefazione di Nicola Lagioia e Christian Raimo a La qualità dell'aria, la raccolta di scrittori italiani appena pubblicata da minimumfax:
A ognuno dei nostri interlocutori facemmo un discorso massimalista sulla nostra idea di letteratura: "Non credi che sia giusto trovare il modo di raccontare l'Italia come fa Bernhard con l'Austria? Di trasformare il proprio luogo e il proprio tempo in una questione di stile?"
"L'impegno: ecco un tabù sulla scrittura attuale che va sfatato. Il coinvolgimento in quello che ci accade. La responsabilità che abbiamo come cittadini, persone, semplici creature".
"Declinare le ansie sociali in uno stile forte, riconoscibile. Non gli scrittori che fanno i giornalisti, gli opinionisti, le persone sensibili, quelli che Busi chiama i "cronisti". Ma l'etica della forma. Hai presente la rabbia di Bianciardi? Il livore disincantato di Arbasino? L'intensità quasi fisica di Fenoglio?"
"Pasolini". "DeLillo". "Sebald". "Houellebecq". "Marìas". "Foster Wallace". "Capote".


Ecco, forse oggi la vita di ognuno, il modo in cui s'arriva alla fine del mese (al di là delle generalizzazioni più o meno scandalistiche di questo o quel giornale) può essere un argomento sufficientemente locale e universale allo stesso tempo, come dice anche Antonio Montanaro, per capire (politicamente e socialmente) chi siamo, cosa scriviamo, perché lo facciamo e soprattutto perché attraverso i blog.

Natalia Aspesi, in un'intervista con Maria Laura Rodotà, ha raccontato:
Si facevano grandi inchieste a quel tempo (nel '76, i primi anni di Repubblica, nota mia), ora chi te le fa fare più? Me ne ricordo una sul Giorno assieme a Giorgio Bocca sulle periferie milanesi: stavamo una settimana in ogni quartiere, una a Quarto Oggiaro, una al Giambellino, scoprivamo un sacco di cose. Era un momento fantastico di partecipazione democratica.


Se non ci sono più i cronisti d'assalto, con le scarpe bucate e i taccuini colmi d'appunti, e se è difficile anche per strutture editoriali importanti riuscire a sintetizzare cosa accade nei quartieri e nelle città, non per questo la cronaca è finita. Se prima si raccoglieva per strada, adesso si diffonde via internet, per il semplice fatto che qualcuno parla di sè: del proprio modo di spendere lo stipendio, di andare al cinema, di usare i mezzi pubblici, di portare i bambini a scuola, ma anche di amare, soffrire, essere sano o ammalato in questa Italia. Insomma, credo che i bloc che tu solleciti esistano già, così come l'aggregatore (il tuo): non è necessario che qualcuno indichi ad altri cosa devono scrivere, è sufficiente che continuino a farlo.

Con affetto.

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22.3.04

L'Italia del derby

Lazio-Roma sospesa (e rinviata) a causa di una voce, poi smentita ufficialmente dalla Questura e dalla Prefettura: un regazzetto sarebbe stato investito e ucciso da un'auto della Polizia nei tafferugli avvenuti prima della partita.
Sono un giornalista sportivo, ma non seguo il calcio da vicino; non ero a Roma per il derby; non ho stabilito la veridicità di alcun elemento che riguardi questa vicenda, ma se per una voce si ferma una partita e 80mila persone in blocco tornano a casa, non vedo perché anch'io non possa aver diritto di esprimere il mio più genuino sentito dire. Se vale tutto, vale anche per me.

Considerazione elementare n.1. Quando frequentavo le Superiori, una mattina sì e una no qualcuno telefonava in segreteria e annunciava che nella notte era stata messa una bomba nella scuola, per far saltare qualche ora di lezione. Non avendo trovato mai nulla nelle prime tre-quattro ispezioni della Polizia, il preside fece installare un registratore accanto al telefono e minacciò che, se fosse stato individuato, il responsabie sarebbe stato severamente punito. Anche a Roma, ieri sera, è squillato un telefono, il cellulare dell'arbitro. Dall'altra parte, c'era il presidente della Lega Calcio, Adriano Galliani, il quale non solo ha autorizzato la sospensione della partita, ma anche garantito seduta stante che il derby sarà rigiocato, senza alcun provvedimento punitivo nei confronti delle due squadre.

Domanda da ignorante n.2. A che titolo il presidente della Lega Calcio può dire quello che ha detto? Non spetta alla Federazione Italiana Giuoco Calcio, al presidente ed eventualmente al giudice sportivo della Figc deliberare la ripetizione della partita senza sanzioni?

Coincidenza n.3. Il prefetto Serra, intervistato in tv, ha sottolineato una circostanza: all'inizio del 2° tempo, quando la voce si è diffusa, la curva degli ultras laziali e quella degli ultras romanisti hanno arrotolato quasi in contemporanea bandiere e striscioni. Come se si fossero passati la voce tra amici<, due tifoserie i cui rapporti non sono invece mai stati improntati all'amicizia e al rispetto reciproco.

Considerazione su altre coincidenze n.4. Lazio e Roma da alcuni mesi condividono una situazione finanziaria estremamente difficile, forse la più delicata della serie A di calcio. La prima a seguito del crac Cragnotti, la seconda per le difficoltà di Sensi e la mancata vendita a imprenditori russi: Entrambe, come se si fossero passate la voce tra amiche, sono accomunate da pesanti inadempienze nei confronti dell'Erario. Venerdì, il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ha annunciato l'intenzione di approvare un nuovo decreto "spalmadebiti", una misura così clamorosa e impopolare (perché, si sono chiesti in tanti, un "normale" imprenditore deve pagare fino all'ultimo centesimo i contributi per i suoi dipendenti da 2000 euro lordi al mese, per non essere perseguito legalmente, e un imprenditore del calcio può evitare di farlo per i suoi dipendenti da 2.000.000 di euro?) che ha lasciato interdetti perfino i suoi più strenui sostenitori.

Domanda da ingenuo n. 5. Più che la capacità di diffusione di questa voce, colpisce la capacità delle tifoserie ultras (e dei capi, che hanno avuto libero accesso al campo di gioco per "convincere" tra gli abbracci i propri beniamini) di fermare una partita, anzi un derby: una cosa inaudita, straordinaria, dunque una eccezionale prova di forza. Non hanno, per caso, voluto lanciare così un segnale, un avvertimento, anche ai più fieri sostenitori del Maximo rimasti interdetti, sulle eventuali conseguenze di una loro eventuale opposizione all'approvazione del decreto che salverebbe prima di tutte le loro squadre?

Domanda da ingenuo n. 6. Il presidente del Consiglio non è anche il presidente del Milan? E il presidente della Lega, Galliani, non è anche l'amministratore delegato del Milan? Quando si definisce conflitto di competenze?

Considerazioni finali n. 7. Seguendo a caldo alcune trasmissioni televisive, ho raccolto molte parole in libertà, plausibili esattamente quanto la voce che ha fatto fermare il derby di Roma. Ne condenso qui alcune:

  • 7a. La Polizia ha smentito categoricamente che si siano verificati incidenti mortali prima e durante la partita. Malgrado l'abbia fatto annunciare allo speaker dello stadio, il prefetto e il questore in prima persona si siano presentati all'arbitro per rassicurarlo, nessuno ha voluto crederle. O comunque, si è detto che lo stato d'animo, tra i tifosi e i giocatori, era fortemente influenzato dalla voce che si era diffusa. Insomma, 80.000 persone non hanno voluto credere alla Polizia. O comunque non sono state tranquillizzate dalle rassicurazioni fornite in via ufficiale e con l'assunzione di responsabilità precise.

  • 7b. Negli stadi si radunano persone di ogni tipo che, per il solo fatto di appartenere a tifoserie (più o meno) organizzate restano impunite nell'esecuzione di una serie di reati (violenze, scontri con la polizia, ecc.) che, in qualsiasi altra situazione "normale", avrebbero ben altre conseguenze.

  • 7c. Una voce, una leggenda metropolitana, per il solo fatto di essere diffusa (al di là di quanto possa essere eventualmente strumentale), esiste. Si è perso il senso del limite, l'idea di verità, soprattutto la capacità di controllo logico.

  • 7d. Il calcio ha assunto ormai livelli (appunto) incontrollabili. Non è più solo uno sport o un business, come si sarebbe detto fino a qualche tempo fa, ma è ormai un terreno nel quale si sviluppano dinamiche di ogni tipo: politiche, sociali, (para) militari, economiche.


Condivido quello che Giampiero Mughini ha detto, sempre in tv: quanto è accaduto a Roma è lo specchio di quello che sta accadendo nella società, della follia quotidiana, dell'irrazionalità che contraddistingue la (gestione della) nostra vita di italiani. Questo derby sospeso è l'indice della perdita di morale, di controllo, di equilibrio, di senso civico. La Roma di ieri sera è la capitale di un'Italia in cui si può far interrompere una partita per una voce falsa e incontrollabile, come dire che i politici sono dei ladri o l'opposizione agisce solo perché mossa dall'odio comunista. Si può fare tutto questo, rimandendo impuniti. E, in qualche caso, rimanendo anche presidenti del Consiglio.

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9.3.04

Lette e sentite

Letto sul Diario dedicato al ritorno della punteggiatura (!) pubblicato da Repubblica mercoledì 3 marzo. Scrive Enrico Franceschini, a proposito del successo di Eats, shoots & leaves di Lynne Truss:
Un fenomeno editoriale, forse non solo editoriale: la scoperta che la gente nell'era di Internet, ha una smodata passione per la punteggiatura, potrebbe significare qualcosa.

Forse ho perso un giro, ma non era la televisione che produceva ignoranti?

In effetti, il problema delle virgole non riguarda solo il mezzo, ma anche chi le usa (per non parlare del puntoevirgola, razza in via d'estinzione) e le condizioni in cui ciò accade. Penso agli articoli di due signore del giornalismo italiano, Natalia Aspesi e Concita Di Gregorio, pubblicati sempre su Repubblica nei giorni del Festival di Sanremo. Frettolosi, scritti "sul tamburo" sotto l'ora di chiusura del giornale, molta cronaca e poche frivolezze. Sono risultati sciatti, sicuramente al di sotto del grande livello che riconosco alle autrici, forse perché abituate a tempi ben più dilatati, per riflettere, correggere, rivedere. Tavolta per chi non ha tempo di elaborare precise opinioni, le virgole diventano un'opinione.

Sentito da un quadro importante di un importante mezzo di comunicazione italiano:
Mhh, io dei blog mi fido poco. Sono una vecchia idea con un nome nuovo.

E noi che ci ragioniamo da anni...

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Er Wi-fi de noantri

Aeroporto Malpensa, questa mattina. Superati i controlli di sicurezza, è tutto uno sventolio di cartelli che annunciano: "Siete in una zona Wi-Fi", con il simbolo di Telecom Italia. In una hall degli imbarchi, svetta uno stand di Vodafone, con due commesse vestite di rosso a cui chiedo informazioni.

Il servizio di Vodafone è accessibile esclusivamente da parte di chi abbia una Sim Card Vodafone, peraltro con contratto aziendale. Due ore gratis di collegamento per cominciare, dopo aver ricevuto via sms una ID e una password. Dopo le due ore, ci saranno tariffe precise. Quali? Non si sa.

Ho ancora tempo prima di imbarcarmi e chiedo all'Ufficio informazioni dell'aeroporto dove trovo un Ufficio informazioni della Telecom per potermi collegare. Non esiste. L'unica è telefonare al 187.

Mi risponde una signora con forte accento torinese. E' gentile e molto solerte, incuriosita dalle mie domande, perché - dice - non ne riceve sovente sull'argomento. Inizialmente, dopo una ricerca su un terminale che è di fronte ai suoi occhi, mi dice che chi ha già un abbonamento con Alice, a casa o in ufficio, riceverà (su richiesta) una lettera nella quale vengono indicati ID e password.

C. - E chi non ha Alice?
187 - Ah (silenzio). Un attimo, chiedo alla collega.

Confabulano, cercano insieme e arriva la risposta.

187 - Deve comperare una scheda wi-fi e installare sul suo pc un software che viene distribuito insieme.
C. - Ho già tutto. Volevo sapere come fare a collegarmi da Malpensa.
187 - Ah (silenzio). E immagino che voglia sapere anche quanto si paga.
C. - Eh, magari.

La signora è sempre più disponibile. Confabula ancora con la collega e ritorna al mio contatto.

187 - Deve pagare un contributo di attivazione di 3.95 euro. Il prezzo per la connessione internet è di 4 centesimi di euro virgola 16 al minuto oppure di 2.50 euro all'ora. Non ci sono abbonamenti giornalieri né mensili.
C. - Mi scusi, ma dove e come pago?
187 - Certo, lei è interessato anche a questo...
C. - Mah.

Nuovo conciliabolo, mentre comincia l'imbarco del mio volo. Sono passati oltre dieci minuti, non ho più tempo per collegarmi via wi-fi né per rimanere ancora attaccato al cellulare: sono sempre molto ligio alle richieste delle hostess di spegnere qualsiasi dispositivo elettronico. La signora riemerge.

187 - Se ha un'utenza Telecom, fissa o mobile, le viene accreditato sulla bolletta.
C. - E se non ho un'utenza Telecom?
187 - L'ho già chiesto... immaginavo che l'avrebbe fatto lei.
C. - Grazie, molto gentile. Dunque?
187 - Ehm, non si può collegare.
C. - Ah, bene! Allora grazie. Buongiorno.
187 - Scusi se l'ho fatta attendere, ma è stato utile anche per me. Sa, non riceviamo sovente... Sono pochissimi quelli che usano...
C. - Certo, certo. Buongiorno.

Dunque, se sono un cittadino straniero e viaggio in Italia, non posso collegarmi in wi-fi ad alcuno dei due principali provider italiani di telefonia. Devo aver già sottoscritto un abbonamento, ho bisogno di un'utenza attivata da tempo.
Ma anche se sono un cittadino italiano, non ho diritto ad avere un servizio che invece ho già utilizzato in altri Paesi, come la Svezia (dove, peraltro, gli hot spot sono praticamente a ogni semaforo), dove ho acquistato una scheda telefonica, identica a quella per i telefoni pubblici, che vale 24 ore solari e riporta ID e password, da grattare con una moneta. E mi chiedo perché, visto che sto parlando di provider telefonici, non si possa realizzare quello che tanti maghi delle tecnologie prevedono ormai da anni: e cioé pagare la connessione con un accredito telefonico diretto e immediato sul cellulare?
Conosco già la risposta: Sa, non riceviamo sovente...

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7.3.04

Città a 21 pollici

New York City, da www.matteopericoli.com
E così, Carrie, la protagonista principale di Sex and the City, ha preferito l'amore al sesso; ha scelto la monogamia, quell'altra parte del cielo dei sentimenti della quale Giovanni Mariotti ha scritto su Io Donna (a proposito del film Big Fish):
Limitiamoci a constatare che il poligamo è fedele alla propria curiosità, e il monogamo alla propria fedeltà. Insomma, più che a un partner, è fedele a se stesso. Alle proprie scelte. La monogamia ha bisogno del matrimonio? No - anzi, una monogamia senza matrimonio è, in certo modo, più probante.

---

Ed Bloom (il protagonista di Big Fish, nota mia) ci insegna che, per non trasformarsi in una catena, la monogamia va con vissuta con grazia e leggerezza, addirittura in maniera un po' fatua.


Per capirlo, Carrie ci ha impiegato sei anni (dovrei ricordarmene più spesso, quando mi vien chiesto di comprendere il terrore e gli sbalzi di tensione di una determinata persona con cui talvolta mi capita, ahi ahi, di parlare di matrimonio...). Ma Sex and the City non è stato solo il telefilm di quattro donne americane alle prese con le grandi scelte sentimentali della vita. Come afferma James Sanders sul New York Times (in archivio, a pagamento) è servito anche a ristabilire la visione di una New York glamorous e mitica, che è stata a lungo un caposaldo dell'immaginario collettivo per buona parte del XX secolo. Non solo quella che ha superato con coraggio e misura l'11 settembre, ma soprattutto la città che si è affrancata dall'immagine che la cinematografia degli Anni 60, 70 e 80 aveva creato, dominata da personaggi etnici - ebrei, italiani, afroamericani, ecc. - che avevano soppiantato i newyorkesi "veraci". Scrive Sanders, autore di un libro, trasformato in sito, Celluloid Skyline: New York and the Movies:
Sex and the City restored a vision of the city that had flourished during the 1930's and 40's: a New York that stood not in opposition to the United States but as its apotheosis, the undisputed American metropolis, luring talented and ambitious young people from all around the country. (...) It recalls that vision of a white Protestant urban culture; at least until the last feew season, ethnic, foreign-born and African-American characters have tended to occupy marginal roles in the show as work colleagues, love interests or the subjects of "people on te street" interviews.

Though their origins are not entirely clear, it is obvious that Sex and the City's four major characters (whose last names - Bradshaw, Jones, York, Hobbes - would not look out of place in a white-shoe investment bank) are not native New Yorkers but women who have come to the city from elsewhere and made it their own


Ora, non è il caso di attribuire troppo valore scientifico e intellettualistico a una fiction televisiva a puntate. Caitlin Moran, sulla Weekend review del Sunday Times, annunciando la pubblicazione di Reading Sex and the City, un libro scritto dai ricercatori di Film Studies della London Metropolitan University, e il fiorire di studi sui significati freudiani delle storie delle amiche di Carrie, scrive giustamente:
The most popular way for graduates to waste their time is deconstructing lowbrow culture in a highbrow way. You dn't even have to be an academic to do it - a 2.1 in geography will do.


Ma è anche vero che Sex and the City, neanche tanto subliminalmente, può essere interpretato come un piccolo e popolare saggio di sociologa della televisione o di televisione sociologica, anzi di urbanistica televisiva. Per un attimo, ho immaginato che idea urbanistica, appunto, si farebbe uno spettatore della televisione italiana. Sulle prime, potrebbe provare sentirsi spaesato, credere che lo Yucatan o Santo Domingo siano stati annessi al nostro Paese. Oppure, credere che le nostre città siano tutte così meravigliosamente a misura d'uomo, linde e perfette, disposte come presepi, come Città di Castello o Modica, in cui l'attività professionale prevalente o quanto meno la più gratificante sia quella di Carabiniere o di commissario di Polizia, non foss'altro che per stare vicino ogni giorno a certe bonone sorridenti e falsamente pudiche come la Arcuri o la Marcuzzi.

Icone, splendide cartoline, che esistono in realtà nella provincia italiana ma solo in pochi esemplari (e quasi tutti, ormai, già comprati da americani e inglesi alla ricerca di un buen retiro e di giardini da coltivare) che qualche sindaco abile ha trasformato in business, commerciale e ovviamente anche elettorale. Anni fa, il massimo obiettivo era assicurarsi una tappa del Giro d'Italia; oggi, è occupare una prima serata in una fiction in tv. Fiction, appunto.

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1.3.04

Amore amaro

Per qualche secondo, ho temuto di potermi un giorno ritrovarmi nella condizione di Vitt, il protagonista di Primo amore. Ho avuto paura che anche la mia testa arrivi a delirare per una ossessione tanto irreversibile quanto la sua. Avrei voluto uscire dalla sala, respirare forte e ripetermi che era solo un film. L’ultima pellicola di Matteo Garrone prende lo stomaco; parlando di cibo, lo fa sentire amaro in bocca, sgradevole e proprio per questo necessario. Coinvolgente, assoluto, come il suo personaggio maschile, pieno di simboli attuali ed eterni (il padroncino del Nord Est, il rapporto con il padre sotteso a ogni scelta estrema di Vitt; la psichiatria aperta, l’immanenza senza peso del corpo e il primato del pensiero). Peggio di così, sono stato sconvolto solo da Festen: dopo venti minuti, mi sembrava d’essere su una nave in mezzo a una tempesta, avrei voluto lanciarmi dal parapetto. Quando uscii dal cinema, pensai di aver assistito a una rivelazione.

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