Elaborazione grafica di Guido Nestola

18.11.02

Cose viste, da vedere

A teatro, finalmente qualcosa di nuovo. Nei testi e nella recitazione.

Come Vallanzasca. Il delirio di un uomo della provincia milanese, che a Capodanno viene licenziato e abbandonato da una donna che in realtà è esistita poco, e decide di farsi giustizia da solo essendo cresciuto nel mito del gangster capace di farsi giustizia da solo.

Carnezzeria. Quattro straordinari giovani attori siciliani che rappresentano la macelleria (Carnezzeria in dialetto, appunto) dei sentimenti e degli istinti di una famiglia disperata, corrotta, basata sul rispetto obbligato, sulla violenza reciproca, sull'ignoranza. Visionario ma perfettamente evocativo.


Al cinema, finalmente un ottimo film italiano. Nell'idea, nella ricostruzione storica fedele e anche qui nella recitazione.

El Alamein. Non un filo di retorica, la corretta rappresentazione del pressappochismo e della fanfaronaggine mussoliniana. Con due scene meravigliose: la fuga per un bagno in mare dei quattro soldati non-eroi e l'allucinazione nel deserto rappresentata da un uomo che porta sulla spalla una forma di Parmigiano reggiano. Realistico e commovente nella sua semplicità.

Meno interessante Marie-Jo e i suoi due amori: da Guediguian mi aspettavo qualcosa di meglio, anche se la sua Marsiglia è sempre più solare, mediterranea, anzi africana.


Tra i libri, finalmente racconti che colpiscono, per la capacità di scrivere e di comunicare più che per lo stile costruito, inutilmente voluto.

Il silenzio della neve. Rocco Brindisi è una splendida scoperta. La vita quotidiana, il dolore, la sofferenza, descritti con poche perfette pennellate epiche.

Cattedrale. Ormai Carver è un classico, che supera le mode e le tendenze artistiche. Tutto accade mentre sembra che non accada nulla. Necessario.

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La solitudine dell’amore

Da Io Donna, intervista con Tilda Swinton:
“Amore non significa non dover mai dire mi dispiace, ma non fottere la solitudine degli altri ed evitare che gli altri fottano la tua”.

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Parola mia

Per puro caso, qualche mattina fa, ho acceso la tv mentre si trasmetteva Parola mia, condotto da Luciano Rispoli con il professor Beccaria. Pensavo di vedere una replica di diversi anni fa e invece è una edizione nuovissima, per la quale si sprecano appelli da parte di critici televisivi e non. La trasmissione ha uno share del 2,3 contro gli 8,6 della media di rete a quell’ora e soprattutto rispetto alle decine di telefilm e soap dei canali concorrenti.

E’ la lingua italiana a non essere più al centro degli interessi di questo Paese, si chiede Aldo Grasso, o è la tv che non riesce più a stabilire una gerarchia e a dettare un’agenda non delle notizie ma dei temi più rilevanti? Forse l’una cosa e l’altra, dico io. La tv è sempre più uno strumento per ammazzare il tempo, per versare qualche lacrima facile o provare a ridere davanti a comici che non farebbero muovere nemmeno un muscolo. Ma c’è anche una disattenzione molto profonda verso la lingua, verso la possibilità di comunicare, di fare e farsi capire.

Tra le famose “Tre I” dei manifesti elettorali di Berlusconi, c’era l’inglese. E oggi per molti è più importante conoscere quello che non l’italiano. Così come è più facile che tanto conoscano i termini tecnici o gergali di Internet o del Marketing piuttosto che qualcosa in più della nostra lingua parlata. Così, mi è capitato di ritirare l’esito di un esame radiografico al torace e di aver letto sul referto, tra le varie cose: “Aorta un pò addensata”. Ammetto di essermi spaventato più del necessario, non solo perché, non essendo medico, non conoscevo il significato medico di quell’affermazione, ma per quel “pò” con l’accento. Ho pensato che quel tecnico di radiologia così superficiale nell’uso corretto della lingua italiana potrebbe esserlo ugualmente nella valutazione degli esami, sottovalutando o esagerando la portata di un evento clinico. Forse non tanto, ma basta un po’.

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Tipico o Locale – La lingua del cibo

Nemmeno 5 anni fa, su qualche rivista di nicchia comparivano i primi titoli: 50 indirizzi per conoscere l’Italia più buona da mangiare. Oggi gli indirizzi sono almeno 250, le riviste sono quelle a diffusione popolare, Slow Food è diventato un fenomeno di massa. E se non fai sciabordare un vino rosso in un bicchiere per misurare la profondità degli archetti o non conosci il caciocavallo podolico fai anche a meno di sederti a tavola.

Il risultato è che ci sono ormai troppi Saloni del Gusto, troppi Expo dei Sapori, troppe degustazioni guidate, verticali, orizzontali e trasversali. Qualunque alimento più o meno dimenticato è meritevole di essere inserito fra i Presidi del Gusto o riconosciuto tra i prodotti tipici. Il cibo, lo stare a tavola, l’antico convivium, sono diventati una moda, un simbolo di stato, una prova della nostra esistenza come soggetti sociali di un certo tipo, livello o classe. Insopportabile.

L’effetto più visibile è che l’artigianato di e per pochi è diventato un mercato per tanti, ormai ricaduto saldamente nelle mani della Grande Industria e della Grande Distribuzione. A causa anche di una questione linguistica sulla quale Antonio Tombolini fa alcune riflessioni molto interessanti, che condivido.

Oggi gli alimenti sono divisi in base alla loro tipicità. Ovvero, semplificando molto, alla rispondenza a un preciso disciplinare (DOP) o anche solo a una parte di esso (IGP). La tipicità è fondata sulla Denominazione, la quale non è altro che un fatto eminentemente linguistico. “Ed è linguistica la spia che ci dice dell’azione di mistificazione operata di fatto (consapevolmente o no) dalle Denominazioni paradossalmente a danno delle produzioni locali autentiche”, dice Tombolini. Il quale propone di passare dalla definizione di un prodotto in base alla Tipicità a quella relativa alla sua provenienza locale. Come? Utilizzando la lingua locale come ingrediente, il che “contribuirebbe forse a rendere più difficile tale operazione e a mantenere così intatto e integro il radicamento del Prodotto enogastronomico Locale al suo territorio, ovunque il prodotto stesso venga distribuito e consumato. In questo caso il Prodotto Locale verrebbe a costituire una vera e propria risorsa economica strutturale per lo sviluppo sostenibile di un’economia precisa e identificabile, l’economia locale, di quell’area, di quel territorio, di quella comunità”. Una selezione alla base per selezionare il mercato e restituirgli serietà e credibilità.

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15.11.02

Il guaio della mezza misura

Tra i documenti originali disponibili sul sito del mensile Prima Comunicazione, è stato da poco inserita la circolare inviata dal direttore dell'Ansa ai giornalisti delle redazioni regionali e dell'estero, dal titolo Regole di scelta e di scrittura dei servizi Ansa. Una nota interessantissima, utile per chiunque, webwriter o no, sia del settore.

Qui stralcio un paio di considerazioni illuminanti sulla dimensione degli articoli e sul modo in cui scriverli.

"L'Ansa del terzo millennio deve rispondere sia alle esigenze informative di una clientela tradizionale che ha nuovi bisogni, sia a quella di una nuova clientela che non è più solo editoriale. Se la nostra clientela elettronica chiede notizie tempestive ed essenziali e quella giornalistica e di stampa domanda articoli elaborati e pronti a essere messi in pagina, non hanno senso le mezze misure, cioé le 15-20-25 righe. O si pubblica una notizia di massimo 10 righe o si diffondono articoli da 60 righe o più. I servizi da 15-20 righe sono troppo lunghi per essere brevi e troppo brevi per essere lunghi. Ma la mezza misura è un guaio".

"In linea generale dovremmo, nel redigere un articolo, domandarci sempre se anche noi, che lo stiamo scrivendo, lo leggeremmo con interesse. E, tenendo presente questo principio, possiamo facilmente decidere anche la lunghezza di un pezzo. La lunghezza, infatti, non è necessariamente relativa al numero di righe scritte. E' lungo l'articolo di cui si abbandona la lettura prima della sua conclusione ed è corto (o lungo nel modo giusto) l'articolo che si legge con interesse fino in fondo".

Molto interessanti, a questo riguardo, gli esempi. Ne trascrivo uno.
"I preti di una regione chiedono l'intervento degli enti pubblici a sostegno delle osterie di montagna. Dieci righe bastano. Ma se si spiega anche che fino a non pochi decenni fa le osterie venivano viste dalla Chiesa come un luogo di perdizione (alcolismo), di dissipazione (ozio e gioco), si capisce il salto che è stato fatto. Gli oratorii sono vuoti da tempo. Restino aperte almeno le osterie. Bisognerebbe far parlare, nel pezzo, un prete, uno storico dell'economia, un sociologo, uno scrittore, un oste, un gastronomo legato agli antichi sapori (tutti della regione)". Materiale buono per ben più di 60 righe.

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14.11.02

Wi-Fi, sarebbe?

Non sopporto più le transumanze tecnologiche, le parole d'ordine, il doversi schierare tutti da una parte, perché dall'altra sono ormai pronti per l'antiquariato. Prima era Internet, poi Umts, oggi è Wi-Fi. E' dovunque: nelle dichiarazioni di principio di certi politici (scusate l'ossimoro!), nelle conversazioni al bar, nelle descrizioni di venditori di macchine dell'ultima generazione. Se non sei o non hai Wi-Fi, non hai o non sei.

Ieri ho accompagnato un mio caporedattore a un incontro con il responsabile dei sistemi del giornale. Avremmo dovuto valutare le qualità di due pc portatili tra i quali si dovrà scegliere l'erede del vecchio ma dignitoso Think Pad. L'ingegnere è partito: ha parlato di porte seriali, infrarossi, connessione al cellulare, Pentium IV, e Gigabite a stafottere. Finché non è arrivato alla parolina magica, Wi-Fi appunto, con un luccichio negli occhi. Sembrava felice, vicino al sogno di questi suoi giorni di vita senza telecomando (sì, intendo il telecomando che qualcuno ha usato tre giorni fa a Milano per togliere il colore dal cielo e poi ha buttato via, fino a marzo dell'anno prossimo). Allora ho guardato il mio capo e ho letto sul suo volto qualcosa più di una smorfia interrogativa. Era stranito, suonato come un pugile alla trentaquattresima ripresa, ma silenzioso. Ha aspettato che l'incontro finisse per aggrapparsi al mio braccio e chiedermi: "Ha detto Wi-Fi?". "Sì", gli ho risposto. "Ah" ha fatto lui, tornando silenzioso per qualche altro minuto. Poi, d'un tratto: "Eeeeeeeee.... sarebbe?"

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12.11.02

Come pesci in uno strano acquario

E' il titolo di un seminario di web writing organizzato dalla Scuola Holding, per intenderci la scuola di scrittura di Alessandro Baricco. Ecco il promo inviatomi per e-mail:

"Per diventare un valido web writer e scrivere sulla rete, non è sufficiente avere qualcosa da dire e l’abilità per dirla. Certo saper scrivere, usare il computer e aver navigato un po’ in Internet, aiuta. Ma ciò che occorre, soprattutto, è la capacità di coniugare diverse competenze. Internet, infatti, ha determinato la fusione (con relativa con-fusione) di tutti i linguaggi preesistenti (televisione, scrittura, musica, cinema, radio), inaugurando quella che potremmo definire una nuova via espressiva. Pur nella consapevolezza della complessità di questa nuova via e del fatto che non esistono “regole d’oro” per insegnare a percorrerla, ma solo alcune questioni su cui riflettere, un metodo e sicuramente delle caratteristiche del mezzo da conoscere, questo seminario offre, in tre giorni di lezione e laboratorio, quanto meno una “segnaletica” a chi intenda battere i primi colpi di pinna nel grande acquario, in gran parte ancora inesplorato, della rete."

E queste sono le informazioni pratiche.
Docente: Valentina Grippo
Frequenza: sabato 10/13 – 15/18 e domenica 10/13 – 15/18
Costo: € 150,00 + IVA = € 180,00
Posti disponibili: 30

Mi è sembrato utile e interessante promuoverlo per quell'invito a riflettere, per la disponibilità a fornire una "segnaletica". L'approccio, per una volta, è di basso profilo. Potere della rete?

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10.11.02

Mooolto divertente

A volte, ci sono cose che valgono più di tante parole. Stasera, facendo zapping tra i blog che mi piace frequentare, ho trovato questa proposta sul sito di Antonio Tombolini. Fate clic su un cavallo per volta: se siete al lavoro e avete voglia di sorridere, vi succederà; altrimenti, vale comunque la pena.

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