Elaborazione grafica di Guido Nestola

23.12.04

Non mancherò

Non so quanti passeranno da queste parti nei prossimi giorni. E non so ancora bene che senso abbia fare gli auguri di Natale su un blog. Forse l'unico è quello di far sapere che ci sono ancora e che ancora vorrò esserci. Stay tuned.

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20.12.04

Berlusconi who?

Dario l'Americano ci ha preso gusto. Ecco la sua ultima corrispondenza:
Guardi la Rai e Mediaset e ti immagini che il Cavaliere senza macchia e senza paura sia il migliore amico degli americani. Che George di qua e George di là. Che: "Very very thanks to my big friend Silvio Berlusconi". Che...
Poi vieni qui in Texas, parli di politica, non tanto però 'ché qua sono tutti repubblicani e non si sa mai, e quando accenni a Silvio ti chiedono: Who? Berlusconi who?
Faccio lo spelling per essere certo che non ci siano difetti di pronuncia, prendo carta e penna per scrivere "quel" nome. Non cambia nulla. Si guardano tra di loro e scuotono il capo.
Provo con Tony Blair: ecco, quello sì, lo conoscono.
Allora guardo i telegiornali con piu attenzione e in effetti, caspita, è vero, di Silvio e dell'Italia non parlano mai.
Sabato si torna a Milano per le vacanze di Natale. Chissà cosa troverò di nuovo. O di già visto.
In sottofondo i Negrita cantano: "Alzo volume a palla per non pensare..."

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1.12.04

Parole parole

Penso a cosa vorrei scrivere, metto nel cassetto i pensieri, faccio le solite associazioni da riportare quassù, ma non riesco ad andare oltre queste poche righe. Gli è che sto consumando un sacco di parole per un'operina a cui tengo molto (spero di parlarne presto), arrivo a fine giornata e riverso le tasche vuote. Così, mi piacerebbe anche partecipare al regalo di Natale che sta preparando Squonk, ma non sono sicuro di garantirlo (e qui mi scuso pubblicamente, in anticipo). Basta dire che questa sera, dopo circa una settimana di silenzio musicale, sono finalmente riuscito ad ascoltare qualcosa di nuovo e di interessante: Charlie Haden e Gonzalo Rubalcaba, Land of the sun. Acqua pura, di fonti notturne di altissima montagna. Per chi ha bisogno di non attorcigliarsi il cervello con le note, questo è un toccasana di melodia classica, composta da Jose Sabre Marroquin, autore tra l'altro di Solamente una vez. Hasta pronto.

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24.11.04

Marshall, Texas - vol. 2

Le nuove esilaranti avventure di Dario L'Americano:
A Marshall, Texas, la notte non inizia mai eppure è lunghissima. Alle 9 i locali sono già vuoti, anche stasera ho cenato con un Babe Ruth che mi fissava da un poster appeso alla parete e un jump shoot di Doctor J fotografato in bianco e nero.
Una zuppa di cipolle e formaggio, un petto di pollo con le patate. E ora che faccio? Sto mettendo su casa, fra due giorni dovrei essere pronto. Intanto, proviamo a fare la spesa.
La notte è lunghissima e gli ipermercati sono aperti ventiquattro ore su ventiquattro. La mia prima spesa americana.
Mi sento come il protagonista di "Mamma, mi si sono ristretti i bambini", solo che l'effetto è un po diverso.
E dire che in Esselunga non me la cavavo male. Certo, a quest'ora non c'è il viavai di via Washington e le singles non sono griffate dalla testa ai piedi, ma sempre di un supermercato si tratta!
Invece no. E' tutto disperatamente più grande, e io vivo solo qui a Marshall, Texas.
Devo avere qualcosa di strano addosso, perché il ragazzo che rifornisce i banchi al quale chiedo dove è sistemata l'acqua minerale in bottiglia mi guarda stranito. Eccerto! E' tutto in confezioni da 1 gallone, 3 litri al cambio attuale. Hai presente una confezione di acqua distillata in Italia? E' cosi, proprio cosi. E devi stare attento a non sbagliare, perché è nello stesso scaffale, rigorosamente ordinato.
Le mele? Pure quelle sono grandi, come una palla da baseball.
Il latte? Quello nella confezione da un litro, scremato parzialmente scremato intero? Macche'... O skim milk o 2% milk, acqua bianca praticamente.
La pizza, spacciata per italiana, ovviamente. Confezione da 840 grammi, che neanche da Ricchiuto* a Brindisi riescono a farla cosi grande.
Impavido e stoico, lista della spesa alla mano, ho affrontato il grande freddo, che non capisco perché fuori sei tranquillo e quando entri devi indossare un piumino termico, e mi sono diretto verso le celle frigorifere. Si trova di tutto, pure di più.
La crisi è arrivata, però, quando pensavo di avercela fatta, nella corsia dei detersivi per lavatrici. Ho contato 37 tipi diversi di detersivi, ai profumi piu' impensati. Okay, okay, mi concentro. Cado per colore, cerco di ricordare Giovanna quale usa in Italia. Il Dash, si ecco, il Dash. Porca America, non c'è! E il Dixan? Neanche. C'è All, c'è Tide, c'è Plus, c'è... tutto, troppo. E affanculo i detersivi. Domani mattina porto gli asciugamani in tintoria.
Via, alle casse. Il conto: 119 dollari. Ho la spesa pronta per due settimane almeno.
Fuori ha iniziato a piovigginare di nuovo mentre guido verso l'hotel. Fra 20 minuti chiamero' mia moglie in Italia per darle il buongiorno.
A Marshall, Texas la notte e' appena iniziata.
*: Ricchiuto, pizzeria di culto dell'anziana gioventù brindisina. Da cui, l'esortazione internazionale: "Andiamo a mangiare una pizza" è diventata sul posto "Andiamo da Ricchiuto".

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22.11.04

Nuove proposte

Dall'intervista di Fabio Gambaro a Daniel Pennac, pubblicata da Repubblica, mercoledì 17 novembre:
Domanda: La critica può essere d'aiuto?
Risposta: Svolge certo un ruolo importante, ma sarebbe bene che a parlare di libri non fossero solo le riviste letterarie o le pagine culturali dei quotidiani. Mi piacerebbe ad esempio che ne parlassero anche i giornali sportivi. Bisogna abbattere le vecchie barriere e rendersi conto che i lettori sono dappertutto.
Lo sottoporrò al mio futuro direttore. Accetto scommesse sull'esito della proposta.

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11.11.04

Avvisi

Il Teatro Franco Parenti ha inaugurato da pochi giorni una sede temporanea. Un capannone artigiano-industriale alla fine di via Tertulliano - zona Est della città, oltre l'ultimo anello della circonvallazione - riconvertito in "spazio", con il muro perimetrale dipinto di azzurro. Sulla porta d'ingresso in legno, è stato attaccato un avviso, scritto a mano:
Spingete. Il teatro è aperto!

Da via Cadolini, un'esortazione e un proposito universali.

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10.11.04

Strade

Oggi pomeriggio, attorno alle 3, in viale Marche a Milano. Un pullman al mio fianco si immette nella corsia preferenziale. Guardo distrattamente oltre i finestrini: bambini e bambine, seduti in maniera un po' disordinata. C'è qualcosa che mi colpisce, ma non capisco bene che cosa. Continuo a scrutare: le bambine hanno il velo; in mezzo a loro individuo alcune donne, saranno le madri, anche loro hanno la testa coperta. Ora, però, quel qualcosa addirittura mi inquieta, non già perché non riesca ancora a definirlo.

Seguo una rotatoria, il pullman si allontana. Ma pochi metri più avanti mi ricongiungo, viaggiando sempre sulla corsia parallela. Non posso farne a meno, giro di nuovo lo sguardo. Due secondi, ecco: le bambine e le donne sono tutte sedute nella parte posteriore; davanti solo bambini.



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Nostàlgia

Sono in religioso ascolto di In Praise of Dreams, ultimo strepitoso cd di Jan Garbarek. Strepitoso è l'aggettivo giusto, anche se qualcuno, tempo fa, mi ha fatto notare che ne faccio uso spesso a sproposito. Stavolta no. Garbarek mi sta entusiasmando, come la prima volta che lo ascoltai in Nude Ants, in trio con Keith Jarrett, Palle Danielson e Jon Christensen: avevo 15 o 16 anni (?) e comprai il disco in vinile dopo aver ascoltato la riproduzione in cassetta del Koln Concert. Leggo sulle scarne note del sito della Ecm che è il primo disco del sassofonista norvegese dopo sei anni e si sente: dalla freschezza, dalla semplice complessità, dalla straordinaria varietà dei temi; dall'asciuttezza essenziale degli arrangiamenti.

If dreams are movies for the mind, the album is aptly titled - its atmospheres are evocative and decidedly ‘"filmic", è scritto ancora. Scelgo un solo brano, a caso. In Without visible sign, per esempio, sembra di ascoltare echi neanche tanto lontani di una versione raffinata e moderna di Nino Rota. A proposito di atmosfere filmiche, un altro disco di altissimo livello, le rievoca il Concertone di Stefano Bollani il quale, pur non rinunciando a qualche strappo ironico, fa fare la sua musica un salto indietro di 25-30 anni, alle colonne sonore di Trovajoli e Piccioni.

Sia Garbarek sia Bollani, però, non spiegano quasi nulla dentro il loro bel cofanetto. Il primo non accenna neanche uno straccio di biografia dei suoi meravigliosi complici: la violista Kim Kashkashian e il percussionista Manu Katché. Il secondo concede tutto alla grafica d'effetto. Ma quei bei libretti di una volta nei quali si imparavano a memoria formazioni e collaborazioni artistiche, si comprendeva il senso del progetto, il messaggio sotteso all'idea, non esistono più?

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9.11.04

Milan, Texas

Ci sono diversi modi ugualmente efficaci per esprimere concetti importanti che riguardano la propria vita, i luoghi di nascita o di elezione, le trasformazioni di quei luoghi e di noi con loro.

Uno è quello adoperato da Ginevra Bompiani, che ha fondato con un'altra figlia d'arte, Roberta Einaudi, una piccola casa editrice (Nottetempo), in un'intervista pubblicata sull'ultimo numero di Ventiquattro, l'inserto mensile del Sole24ore:
La Milano di ora è una Milano sedata, senza fermenti. Il mio quartiere, dove sono nata e cresciuta, ormai è fatto di costosissime boutique. Sembra che si viva solo di vestiti. Non è contemplato altro. Le serate sono tranquille e noiose. Il solo guizzo di vita è dato, ora come allora, dagli adultéri. Nessun fermento politico o letterario, niente ironia. Le stesse case editrici esistono ancora, certo, ma non ci sono più gli editori, salvo pochissimi.

Un altro, che trovo esilarante e fantasioso nella sua assoluta aderenza alla realtà è quello di Dario Cananzi, un mio amico dell'adolescenza (sono nato a Brindisi, mi sembra di averlo già detto, ma di seguito si capirà ancora meglio) e un "socio" delle mie primissime esperienze giornalistico-televisive (avevo 15 anni, lui qualcuno di più) che con (e de)i vestiti incombenti di cui parlava Ginevra Bompiani vive e lavora. Da pochi giorni è in Texas e queste sono le sue prime impressioni, molto crude:
io sono nato a Brindisi, dove il sole sorge 1 ora prima che a milano, figurati qnt tempo prima che qui.
Qui sarebbe Marshall, Harrison County, Texas.
Chi lo avrebbe mai detto? Io, che fino a pochi anni fa parlavo solo in brindisino stretto, oggi mi sveglio e dico how are you today? 100 volte al giorno.
O cose tipo nice to see you. Nice to see you? Piacere di vederti? E se 'sto piacere nn ce l'ho, mica posso dirgli No nice too see you, che si offenderebbe un pokino, no?
Il posto non è male, è come stare in un perenne set cinematografico: cappelli da cowboy in testa, girano su improbabili auto colorate, truck rossi cn i tubi d'acciaio a vista, donne grassissime di ogni eta' mangiano di tutto a tutte le ore. E quello ke avanza se lo portano a casa.
Lo sceriffo! Minkia, lo sceriffo! Da come si muove deve aver studiato alla Clint Eastwood School...
Paese piccolino, dove la gente non mormora, non perche' si facciano gli affari loro ma perche' in giro si vede nessuno. Dopo le 6pm (che secondo me nn sta per post meridiam, ma per PoMeriggio), tutti in casa e per vedere un po' di confusione bisogna andare nei mall. I centri commerciali, carlo....
Posso davvero contare sulle dita di una mano le belle tipe viste qui in una settimana. Tranne stasera che mentre stavo cenando al Golden Corral (e' un posto organizzato come un buffet del valtur, 10 dollari e mangi e bevi qnt vuoi) e' entrata una squadra di basket femminile in viaggio per trasferta.
Mi si sono incrociati gli okki e allora per evitare lo strabismo ed il sangue acido ho finito di cenare e me ne sono andato.
Bhe...mo' torno in camera a leggere un po'. Fatti vivo.

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Cronache, voci e non smentite

Provo a ricostruire la vicenda in estrema sintesi. Io riporto un brano del diario veneziano di Guido Chiesa sulla presentazione del film Lavorare con lentezza, in cui il regista critica la critica, e un estratto da un intervento di Wu Ming 4 (tra gli sceneggiatori) che spiega senso, sfondo e intento del film. Nei commenti al post, Svaroschi sottolinea l'eccesso di "snobismo alternativo" dei Wu Ming, citando una presunta rissa con un fotografo che sarebbe avvenuta a Bologna durante la presentazione della pellicola. Subito dopo, Franco la smentisce, raccontando una versione dei fatti diversa, avendovi assistito direttamente, e accende un mini dibattito.

La situazione mi sembra un interessante esempio (con molta presunzione, lo definisco addirittura esperimento sul campo) di cronaca attraverso i weblog e in un post successivo, nel segnalarlo, chiedo che siano i Wu Ming a dirimere la questione. Nei nuovi commenti, si scopre che Svaroschi ha saputo della presunta rissa solo per interposta persona, non era presente insomma, a differenza di Franco. Qualche giorno più tardi, ricevo anche una mail cortese da parte di Wu Ming 1 che solo oggi, con vergognoso ritardo, pubblico di seguito:
Mi hanno testè segnalato la discussione sul tuo blog. Mi dispiace, Carlo, ma noi non possiamo intervenire a smentire una notizia così inverosimile, che figura ci faremmo? Sarebbe come dichiarare: "Non è vero che facciamo i sacrifici umani" o: "Non è vero che veniamo da un altro pianeta". Se dovessimo occuparci delle idiozie di qualunque matto, non vivremmo più. Non nego che quel fotografo uno scapaccione lo meritasse (e forse se avesse continuato a insultare, e il personale della Cineteca non gli avesse chiesto di alzare i tacchi, se lo sarebbe pure preso, e forse nemmeno da noi), ma la realtà come l'ha vista una sala stracolma è che noi non ci siamo mai allontanati dal tavolo sul palco e il suddetto è sempre stato molto discosto da noi, finché non se n'è andato.

Wu Ming, insomma, non smentisce nulla, perché non c'è nulla da smentire. Ma mi fa riflettere, senza nulla di personale nei confronti dei protagonisti di questa vicenda né l'intenzione di trasformare Wu Ming in vittime della curiosità dei media, in generale sulla relativa accuratezza nella comunicazione da parte delle persone (blogger o non blogger, non fa differenza) e sull'uso molto facile (blogger o giornalisti, fa ancora meno differenza) di voci, dicerie, rumors, senza che siano prima verificati. E' il vecchio discorso sull'attendibilità e sulla credibilità che non si ricevono con una tessera di giornalista, tanto meno con un esame professionale, ma si costruiscono con la pratica quotidiana e il rispetto di un'etica universale e particolare.

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8.11.04

Mangiarsi le parole

E' il titolo di un festival letterario e gastronomico che si svolgerà nel fine settimana a Livorno. Originale in sé, ma anche nelle proposte di letture, azioni sceniche e degustazioni. Ne segnalo alcune:
venerdì 12,ore 18.30, Emeroteca Comunale, via del Toro 8
Francesco Niccolini + Andrea Purgatori
Teatro civico. 5 monologhi per Report (Einaudi)
Gli autori presentano il libro dei monologhi scritti per Marco Paolini per la trasmissione-culto di Rai3 Report. Al termine, videoproiezione dell'intervento sulla strage di Bhopal
al termine: Tè indiano

venerdì 12 ore 21.30. Sala AgipPetroli, v.le I. Nievo 38
Il costo della vita, di Philippe Le Guay
Destini che s'incrociano come in un film di Altman, ma in forma di commedia, con un montaggio serrato, toni leggeri e scene nelle quali si ride di gusto, merito anche di un cast eccezionale. Il piatto forte è un fantastico gattuccio al vino rosso, citato così tante volte che si esce dal cinema con l'acquolina in bocca.
al termine: Pesce di tonno

sabato 13 ore 18.30. Centro Donna, via Strozzi 1
Margherita Dalle Vacche
Aperitivo... stregato
www.manidistrega.com, la rivista web nata a Livorno e dedicata alle donne della Toscana, compie due anni: due parole e un brindisi "stregato"! Introduce M. Giovanna Papucci. Margherita Dalle Vacche, ideatrice del portale, racconta come è nato e cresciuto, e presenta alcune delle molte affezionate che lo hanno sostenuto
al termine: Stuzzichini, e aromi e gusto di vini

domenica 13 ore 16.30, Centro Donna, via Strozzi 1
Susanna Cappellini con Carlo Bornaccini
Un amico tra le nuvole (La Scuola)
Dalla vincitrice del Bancarellino un altro romanzo per i più giovani. La storia di un ragazzo vittima del bullismo, che non si sente accettato né dagli amici né dai genitori. Ma qualcuno lo aiuterà a recuperare l'autostima. Vincitore del premio Antonella Castellano
al termine: Pane e Nutella

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Last minute

Mosca, martedì notte, intorno all'una.
"Eccola! Vedi quella ragazza con il giaccone bianco? E' il segnale che lì c'è un gruppo di prostitute*. Ti avvicini con la macchina, abbassi il finestrino e chiedi quali tariffe trattino. A volte, capita, come con questa, che rinvii a un altro "palo" perché la strada è trafficata e c'è il rischio di controlli della polizia. La sua... collega è quella lì, vestita di nero, accanto al semaforo. Tratti con lei le prime tariffe, le chiedi quante ragazze vuoi e lei ti fa entrare in una strada più piccola e nascosta. Andiamo, ma teniamo accese solo le luci di posizione.

"Guardale! Sono lì, tutte in branco, aspettano. Saranno una ventina. Una mezzana si avvicina alla tua macchina e ricomincia la trattativa. Ti chiede quanto vuoi spendere, quante ne vuoi... Io ne ho chieste cinque, da duecento dollari. Mi ha detto comunque che ne ha anche per meno, ma io ho insistito che voglio vedere quelle da duecento. Si è girata, ha alzato il braccio destro, indicando il numero 2. Adesso le chiama, senti?: Duecento, dice. Spuntano da non so dove, qualcuna era in un'auto, altre erano nascoste in un portone. Queste otto ragazze valgono duecento dollari. Si mettono in fila davanti alla nostra macchina, io accendo gli anabbaglianti.

"Visto? Vabbè, adesso andiamo, se no qui rischiamo che ci trovi la polizia e poi è una rottura di coglioni. La mezzana torna vicino al finestrino e tu le dici che non te ne piace neanche una. Via, metto la retromarcia e andiamo a bere qualcosa".

Terribilmente istruttivo, d'accordo. Mi chiedo, però: è possibile che, se vai a Mosca, non ti fanno più visitare la piazza rossa o il mausoleo di Lenin, ma ti portano solo a un "Puttan Tour"?

*: il termine realmente adoperato è naturalmente più crudo ed efficace.

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31.10.04

Io non ti guardo negli occhi

Ricevo da Claudia Provvedini (che si sta entusiasmando all'idea di bloggare, attraverso Fuori dal coro) e molto volentieri pubblico, a proposito di uno spettacolo teatrale in scena a Milano fino a questa sera:
Con i libri osannati dalla critica è sempre successo: il pubblico dei lettori poi ne salva un capitolo e sarebbe pronto a bruciare il resto. Con le rappresentazioni teatrali è un fenomeno relativamente nuovo e comunque più difficile è esprimere una reazione analoga da parte dello spettatore. Insomma, non si può buttare via o bruciare una sala (se è successo, finora, è stato per dei teatri interi e per altre ragioni, vedi Petruzzelli e Fenice). Dunque, se uno spettacolo non funziona, che fare? Stiamo parlando del lavoro Io ti guardo negli occhi, ma soprattutto della mancata comunicazione in esso tra gli attori e il regista. Da una parte, infatti, c'è un'idea diciamo strategica di far muovere un gruppo di persone in uno schema, più che in una storia: quella sembra secondaria, sembra affiorare qua e là, come se improvvisamente sia il regista sia gli attori si ricordassero di appartenere ad una traccia, come su un disco. Dall'altra, ci sono questi uomini e donne, tipicizzati al massimo, come in certe favole dell'Est. Che fare? Sull'impiantito inclinato e provvisorio del Teatro Studio il pubblico cavalcava verso l'uscita: un'emorragia. Bravi! Gli spettatori, naturalmente, liberi di non essere borghesemente educati.

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27.10.04

In cerca di Pedro

Marguerite Yourcenar scrive nei suoi taccuini a proposito di Memorie di Adriano:
Nel dicembre del 1948 ricevetti dalla Svizzera - dove l'avevo depositata durante la guerra - una valigia piena di carte di famiglia e lettere di dieci anni prima. Sedetti accanto al fuoco per venire a capo di quella sorta di orribile inventario post mortem. Trascorsi così, tutta sola, parecchie sere. Aprivo pacchi di lettere prima di distruggerle, scorrevo quel mucchio di corrispondenza con persone dimenticate e che mi avevano dimenticato: alcuni vivevano ancora, altri erano morti...
Aprii quattro o cinque fogli dattiloscritti: la carta era ingiallita. Lessi l'intestazione: "mio caro Marco..."
Di quale amico, di quale amante, di quale lontano parente si trattava? Non ricordavo quel nome.
Mi ci volle qualche momento perché mi tornasse alla mente che Marco stava per Marc'Aurelio e che avevo sotto gli occhi un frammento del manoscritto perduto. Da quel momento, per me non si trattò che di scrivere questo libro, a qualunque costo.
Tutto ci sfugge. Tutti. Anche noi stessi. La vita di mio padre la conosco meno di quella di Adriano. La mia stessa esistenza, se dovessi raccontarla per iscritto, la ricostruirei dall'esterno, a fatica, come se fosse quella d'un altro. Sono sempre mura crollate, zone d'ombra...

Il brano trascritto fa parte del programma di sala di Memorie di Adriano, che un Giorgio Albertazzi scarno, finalmente poco autocelebrativo e dalla recitazione essenziale, quasi un racconto i cui toni vengono ottenuti per sottrazione, sta portando in scena in questi giorni al Teatro Strehler di Milano. Poco prima, avevo visto La mala educacion, il film di Pedro Amodòvar che parte dallo stesso presupposto: una lettera, che viene consegnata solo alla fine del film alla vittima inconsapevole di un gioco al massacro di minacce, torbide passioni omosessuali e biechi interessi personali; un racconto perduto e ritrovato (La visita), se non in verità trafugato dal fratello della vittima, un travestito, di un omicidio causato dall'attrazione fra due uomini.

La coincidenza, in realtà, non si ferma qui. L'omosessualità che pervade pesantemente il film di Almodòvar è la stessa che tocca delicatamente Le Memorie della Yourcenar nel rapporto eletto e disperato fra l'imperatore - uomo moderno per eccellenza nella Roma classica e poi trasformatosi in modello classico di virtù, in quanto amante della cultura e della pace, della libertà e della democrazia - e Antinoo. Non vorrei sembrare pedante, ma tra l'una e l'altra c'è un abisso di sensibilità, di misura, di equilibrio. Nel merito e nel metodo.

Nel merito, perché quella de La mala educacion conduce al nulla, all'annichilimento per interesse, al vuoto che vanifica anche il sentimento eventualmente più puro, quello che rimane fra la vittima e il suo primo oggetto d'amore, il regista al quale il fratello (un Gael Garcia Bernal clamorosamente tozzo) consegna il racconto che diventa sceneggiatura, spacciandolo come proprio. Il legame che unisce Adriano al suo più giovane amico è invece l'espressione piena della natura, della purezza, dell'essenza dell'uomo anche nel suo desiderare un altro simile dello stesso sesso. Così, se nel film la morte è uno strumento da usare senza guardarne gli effetti direttamente (i due assassini consegnano la dose letale alla vittima, che chiede di essere lasciata sola non conoscendone gli effetti tragici), a teatro e nel capolavoro letterario della Yourcenar va "accolta a occhi aperti".

Nel metodo, perché il film di Almodovar, a cui evidentemente piacciono i melodrammi e non fa più nulla per nasconderlo anche in un film come questo nel quale raggiunge livelli di doloroso distacco dalla materia che tratta, è incostante; neanche tanto originale quando sovrappone la realtà alla fiction, riproducendo il cinema nel cinema; si perde nel tentativo di usare tanti spunti (la pedofilia tra i preti, l'innamoramento tra bambini, il rapporto edipico, i fratelli-coltelli, l'antierotismo dei rapporti sessuali così marcati da non essere né visti né tantomeno immaginati, ecc.) perdendoli per strada, a volte per scelta, altre per discontinuità.

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26.10.04

Dannati senza confini

In realtà, il post si potrebbe anche intitolare Non sottovalutare le conseguenze dell'amore. Nulla di nuovo? Già dato? Appunto. Perché anche La sposa turca rttorna su questo argomento diciamo pure hit della stagione cinematografica. Lo fa partendo dalla Germania e arrivando a Istanbul, anzi in un entroterra montuoso della Turchia che un originale gruppo di corifei in costume tradizionale adagiati su un tappeto di tappeti sulle rive del Bosforo lascia immaginare, in un vero e proprio viaggio dentro gli inferi di città che vivono, si perdono e si dannano di notte: plumbea quella tedesca, quasi glamour la capitale della Turchia vista dall'alto del Grand Hotel Marmara, all'imbocco di Taksim.

Non un capolavoro, tale da giustificare l'Orso d'oro all'ultima Berlinale, ma comunque una pellicola da vedere. Soprattutto per la straordinaria faccia segnata, alla Mickey Rourke, di Birol Unel, il protagonista maschile, redento dall'amore e dal desiderio nei confronti di una donna molto più giovane e libera di lui. Così libera, da promettergli di aspettarlo all'uscita da una prigione nella quale era finito a causa sua, e non tener poi fede all'impegno, poiché ingabbiata in quella morale borghese (avendo una figlia e un nuovo compagno) tipicamente nordeuropea da cui era fuggita chiedendogli di sposarlo dopo averlo incontrato in un ospedale psichiatrico a seguito di un tentativo di suicidio, e che sembra invece sopravviva anche in Turchia. Tutto con una colonna sonora, quella sì, eccezionale.

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In casa mia

Non so se ci sia ancora qualcuno, in Italia o da queste parti (che non è la stessa cosa...), che si interroghi sui rapporti tra weblog e giornalismo. Mi sembra, però, utile segnalare quel che si è verificato, mio malgrado, su questo blog nel commento a un post. Due frequentatori si sono confrontati su un avvenimento, ciascuno riportando una versione. L'episodio è lo stesso, ma viene descritto in due maniere differenti, a seconda dell'esperienza di chi vi ha assistito: la conoscenza diretta dei protagonisti del fatto, la conoscenza di talune loro abitudini, ecc.. Senza che io lo volessi, si è fatta cronaca; a questa è seguita un'opinione; e anche a quest'ultima ha corrisposto una contropinione.

Interessante esperimento sul campo, a cui però mancano alcune condizioni sostanziali perché si giunga a conclusioni efficaci e credibili: le dichiarazioni dei diretti interessati. Non conoscendo il nome del fotografo, non sarebbe utile che, per purissimo caso, i Wu Ming coinvolti lasciassero a loro volta una traccia?

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La logica delle parole

Ancora a proposito di Parola, scrive Piero Bianucci, su un Ttl di non so più quanto tempo fa, a proposito di Le menzogne di Ulisse di Piergiorgio Odifreddi:
La logica ha il ruolo di smontare quelle sublimi trappole che il pensiero e il linguaggio costruiscono, rimanendo poi prigionieri di concetti, come essere, infinito, verità. "Fino a quando la cosa si mantiene nel sano ambito della logomachia e della logopaidia, cioé della battaglia o del gioco di parole, tutto va bene - conclude Odifreddi -. Ma quando si soffre di logopatia o di logolatria, cioé di ptologia o di adorazione del linguaggio, allora diventano necessarie una logopedia o una logotomia, una rieducazione o una asportazione del logoso, che solo la logica ha dimostrato di saper effettuare".
Insomma: la logica non si limita a far piazza pulita della metafisica, ma è una "redentrice del peccato originale del linguaggio, apparsa sulla Terra per riscattare chi parla e chi pensa".

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25.10.04

La parola alla Parola

Avrò avuto sette o otto anni. Non ricordo in quale occasione, la mia famiglia andò a Roma e una delle prime tappe del viaggio fu quella alle Fosse Ardeatine. Nella memoria, riappare l'immagine di una lapide su un muro di mattoni a vista, in un luogo un po' tetro, e il racconto di mio padre di quello che accadde lì. Non so se quella lapide esista e se quel luogo fosse davvero tetro, ma le Fosse Ardeatine rappresentano una delle prime lezioni dal vivo di Storia a cui abbia partecipato.

Sarà per questo che mi appassiona, quasi mi entusiasma, assistere ogni volta a Radio Clandestina, il bellissimo monologo di Ascanio Celestini. Com'è successo una settimana fa, nottetempo, su Rai2. E sottolineo "nottetempo", non tanto perché la trasmissione sia andata in onda a mezzanotte e cinquanta, ambientata nel museo ebreo di via Tasso, quanto perché a quell'ora era sufficientemente lontana dagli occhi e dalle orecchie di quei telespettatori che, qualche sera più tardi, hanno assistito all'agiografia in seconda serata di Benito Mussolini, apparecchiata da Bruno Vespa; ed era adeguatamente nascosta all'attenzione delle giovani generazioni, agli studenti con i pantaloni a vita bassa o ai teppisti dell'allagamento facile, a cui i revisionisti storici di governo stanno raccontando tutta un'altra Storia da quella realmente accaduta.

E sarà per questo che Ascanio Celestini mi appassiona, quasi mi entusiasma, anche oltre Radio Clandestina. Scenografia minima (una lampadina, lo scheletro di una porta, una sedia), accento romano, Celestini è la parola che si fa scena, l'oralità che diventa spettacolo civile, la drammaturgia che nasce dalla verità dei fatti. Qualche mese fa, ho assistito al saggio finale di un suo laboratorio al Dams di Bologna. Con alcuni studenti, Celestini voleva realizzare una drammaturgia attraverso l'uso delle fonti orali, per rispondere alla seguente domanda: E' possibile costruire una storia a partire dalla storia di una persona? L'argomento era la vita nell'ospedale psichiatrico di Bologna prima e dopo la legge Basaglia, ricostruita attraverso le testimonianze di una ausiliaria, uno psichiatra che aveva lavorato in quel manicomio e ora presta servizio in un Centro di salute mentale e un'infermiera che aveva assistito quel medico.

Attratto dalle questioni della Parola, gli chiesi quali usasse, quali preferisse, come si potesse compiere nella sua esperienza la trasposizione dalla testimonianza individuale al testo teatrale pubblico. Ho ritrovato gli appunti che raccolsi durante le sue risposte:
  • Una storia si racconta mediante una visualizzazione: in questo modo, si sollecita l'immaginazione (nel senso di ricorso alle immagini) dello spettatore. Per dire, devo vedere
  • I testimoni contribuiscono a costruire la storia, ma non sono la storia né i suoi personaggi: anzi, i loro racconti devono portare, se possibile, a creare dei personaggi diversi attorno ai quali sviluppare la drammaturgia
  • Il testo non deve derivare da una scrittura, ma da un ascolto: se una storia si racconta, questo aiuta a trascriverla meglio
  • La memoria è personale, la sua ricostruzione ha un effetto distorcente della realtà: nei due anni che ho dedicato alla realizzazione di Fabbrica, sono emerse delle contraddizioni molto forti nel materiale che avevo raccolto nelle testimonianze
  • La qualità della voce non sta solo nella sua sonorità. Ma anche nella scelte delle immagini, nelle pause, nelle digressioni, nelle ripetizioni
  • La ripetizione tende a ridurre le parole, a sottrarre; non serve più a imparare a memoria un testo
  • Nella costruzione di una storia, non dev'esserci un limite di tempo. L'unico limite sta nel fatto che un racconto inizia. Sono i luoghi, gli spazi, i percorsi immaginati e lasciati immaginare a definire i confini di una storia.

Al centro di tutto questo, dunque, sta la parola. La parola di chi descrive, ricorda, ricostruisce. E la parola di chi la tramanda, la inserisce in un contesto, la riduce all'essenza dell'immagine. E' uno dei pochi modi che ci restano, e Celestini è uno dei suoi ultimi interpreti, per evitare il tracollo della parola descritto con preoccupazione venerdì 15 ottobre da Mario Luzi a Renzo Cassigoli e Valentina Grazzini in un'intervista per l'Unità:
Domanda: Non è un bel momento, Professore. Le parole sembrano perdere sempre più il loro significato: e così le vittime si fanno carnefici, in guerra muoiono ormai quasi solo civili, i mercenari passano per eroi e chi si impegna per la pace è deriso e insultato. Che ne pensa il Poeta di questo tempo capovolto?
Luzi: E' un soqquadro. Le parole hanno perso il loro corrispondente. Sembra quasi di vedere un orologio impazzito in cui le lancette non riescono più a segnare l'ora giusta. E' la crisi di credibilità della Parola. on è cosa nuova, l'abbiamo denunciata da un bel po'. E' qualcosa che il poeta sente, avverte, perché la parola gli appartiene, la attua quando cerca di farla corrispondere a una cosa, a un'idea. E' bisogno di autenticità, di ritrovare il nesso profondo e unico fra la parola e la cosa, fra la parola e la spiritualità. Un problema che il poeta si è posto in particolare negli anni più recenti in cui la corruttela si è fatta più forte, più arrogante. A un certo punto pensi che anche il tuo linguaggio si riferisca a un'umanità che quasi non c'è più o rischia di non esserci più.

Celestini ha presentato un estratto dell'ultimo spettacolo, Scemo di guerra, andato in scena al Teatro Verdi di Milano fino a questa sera (ma altri suoi testi saranno presentati nei prossimi giorni), durante Outis, un festival della drammaturgia contemporanea, dedicato quest'anno in buona parte alla traduzione. Poche sere prima della sua lettura scenica, avevo assistito a Epistola ai giovani attori - sottotitolo Perché sia resa la parola alla parola - di Olivier Py, con un bravissimo Giancarlo Dettori. E' una lunga arringa in difesa della parola, recitata da un Poeta abbigliato come un'antica Tragedia (un vestito lungo da donna tempestato di strass), che si difende dall'accusa di un gruppo di pericolosi agenti moderni: l'Addetto alla Cultura, il Poliziotto del Desiderio, il Ministro della Comunicazione, ecc. A metà della piéce, la Tragedia afferma:
Angeli del cielo, salvateci.
Si sta preparando una generazione di schiavi. Quello che è accaduto negli ultimi anni è peggio di un genocidio. E' stata rimessa in discussione, e definitivamente, la virtù della Parola; è stato tolto ogni valore alle forze simboliche (...).
Un mondo in cui le parole non hanno più nessun valore - nemmeno il valore dei tre soldi di saliva umana che le portano - un mondo in cui non si può avere niente dicendo "Vi do la mia parola", un mondo in cui regna l'ossessione della menzogna, è un mondo di pazzi.
Le parole hanno valore solo in un accordo tacito, inesprimibile, irrazionale: chiamiamolo amore. Tutte le parole sono parole d'amore, è nell'amore che le parole trovano il loro potere taumaturgico. Ma un mondo in cui le parole non hanno più valore ha un nome: si chiama inferno
(...) La Parola è Promessa.
La Parola è l'amore che si incarna nell'oralità sotto forma di Promessa. (...) Tra uomini, quando tacciono i bisogni, resta da condividere la vita, la gioia, la Speranza. E' vero che la speranza può vincere la morte, finché passa da un cuore all'altro non c'è pericolo che la morte la raggiunga. (...) quando l'esercizio della parola è svilito alla comunicazione animale di un bisogno, quando si dubita che ci sia la Parola nella parola, quando si disprezzano i termini, quando si infanga il lirismo, si assassina il fatto umano nella sua più grande virtù.

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16.10.04

L'arte del recensire - 3 / Sedici righe

Ho assistito alla prima di La Scimia, il nuovo spettacolo teatrale di Emma Dante. Non mi ha entusiasmato e lo stesso era accaduto a molti dei critici che ne avevano scritto dopo la presentazione alla Biennale di qualche giorno prima, evitando però di essere troppo diretti. Avendo ancora negli occhi lo strepitoso Carnezzeria della stessa compagnia e della stessa autrice, ho avuto la sensazione di un deja vù, senza però il mordente dell'originale, come se il tentativo di scavare nei tabù di certa borghesia siciliana avesse già raggiunto il fondo senza trovare nuove soluzioni, se non quella di stupire fine a sé stessa.

Fin qui io. Ho chiesto alla mia amica Claudia Provvedini, cronista teatrale del Corriere della Sera, di regalarmi la sua critica dello spettacolo, peraltro mai pubblicata. Il risultato è questo piccolo capolavoro:
Uno spettacolo diviso, La scimia: linguaggi diversi che parlano per conto proprio non creano dialettica, ma divisione. La "famiglia" di attori di Emma Dante costruisce all'inizio una concentrata visione di oscurantismo, bigotteria, carnalità clandestina e repressa nel quartetto delle due zitelle e dei due preti. Il loro alternarsi sulle sedie - seduti, in piedi, scambiandosi i posti freneticamente - ha il ritmo di un Crave della Kane, anche se non genera combinazione di storie tra le figure. La prepotenza degli oggetti, dalle croci alle noccioline, è figlia del teatro espressionista dell'est e di quello barocco di Barba, con una pepatura marcata sud italiano, Sicilia in particolare, che mette in evidenza il rapporto fisico tra l'attore-uomo e l'attore-oggetto, stressandolo fino al punto di farlo diventare astratto. Ma quella tensione quasi metafisica si spacca con l'ingresso dell'uomo-scimia. Concessione al voyeurismo, esibizione, virtuosismo, mimesi realistica: è il pene esposto che fa ridere il pubblico? È l'immedesimazione nell'animale? Fatto sta che arretrano sullo sfondo l'ironia beffarda, la sofferta architettura delle relazioni umane distorte, l'angoscia che trasmetteva Carnezzeria, e già Mpalermu. Perché Emma Dante ci è andata giù così pesante nella descrittività da suscitare persino noia. Non avremmo voluto vederla la scimia, lo scimio: la violenza, il sesso sono il terremoto sotterraneo del lavoro di Sud Costa Occidentale e, nel nuovo, non esplodono né fanno tremare la scena: disturbano.
Spero solo che Claudia prenda la buona abitudine di farmi altri regali del genere.

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L'arte del recensire - 2 / La critica della critica

Ho trovato una risposta alle seconda parte delle perplessità espresse nel post precedente (se, in quanto spettatore tipo, io possa esprimere una critica credibile e accettabile) nel diario veneziano di Guido Chiesa, regista di Lavorare con lentezza, pubblicato su Giap, la newsletter dei Wu Ming che del film sono stati co-sceneggiatori.
Verso le 0.40 (proiezione stampa ritardata di mezz'ora perché il film precedente era iniziato con un'ora di ritardo perché quello prima…) ci giunge notizia che i critici hanno applaudito il film, a dispetto del fatto che, prima dell'inizio, ci fosse in sala chi andava dicendo che il film era una merda, prima ancora di averlo visto…
La notizia dell'applauso ci giunge un po' a sorpresa perché nei giorni precedenti le proiezioni per la stampa a Milano e Roma, pur avendo registrato l'apprezzamento di numerosi addetti ai lavori, avevano pure segnalato il disorientamento e il malumore di alcuni critici verso un oggetto che sfugge a molte delle categorie che sono soliti utilizzare. E, soprattutto, che rifugge (orrore!) spiegazioni didattiche, intenti pedagogici e (orrore degli orrori!) l'unità stilistica!
Nei giorni successivi alla proiezione veneziana, queste perplessità della critica mi verranno nuovamente riferite, anche se, in ogni caso, circolerà attorno al film un'atmosfera (positiva) di film "diverso", comunque interessante.
Il problema della critica, soprattutto italiana, è complesso e non può essere certo esaurito qui. Ma la sensazione principale che emerge da quanto letto e ascoltato in questi giorni è che, di fronte alla molteplicità dei discorsi (linguistici e non) che abbiamo, volutamente e coscientemente, inserito nel film, ci sia sempre qualcosa che convince e sempre qualcosa che non convince gli addetti ai lavori. Come se l'esercizio della critica consistesse nel dire che c'è qualcosa che funziona o non funziona in questo o quel testo. Con la curiosa capacità poi di indicare tutto e il contrario di tutto: bello il pretesto narrativo, debole il pretesto narrativo; delude il finale, eccellente il finale, ecc..
Ma è veramente questa la funzione della critica? Mah...
Eppure, si sa, sono pagati per scrivere qualcosa.

Certo non perché sia spaventato da queste considerazioni, alcune delle quali anche abbastanza banali e inutilmente qualunquiste, a me il film è piaciuto. Perché è un film onesto, militante ma senza eccessi, schierato ma con juicio. Perchè, partendo da Radio Alice e dal movimento degli studenti bolognesi del '77 con tutto il suo portato politico e filosofico, sviluppa una storia universale, di ragazzi e ragazze di ogni tempo che misurano sulla propria pelle il conflitto tra la ricerca della libertà sessuale e la necessità di conservare la proprietà dei sentimenti, propri e della persona che amano e vorrebbero possedere. Perché è originale nell'uso di alcuni accorgimenti narrativi (i siparietti da film muto, stile corazzata Potomkin, per descrivere il processo di costruzione politica della radio, per esempio). E soprattutto perché, pur badando molto all'unviersalità di cui sopra, conserva una cura ammirevole per la ricostruzione, storica e soprattutto degli ambienti e del clima (anche se, per esempio, è stato notato che i libri, e le intere collane Einaudi di cui fanno parte, che i protagonisti leggono non erano ancora stati pubblicati nel '77) in cui si svolge la vicenda: gli interni da Centro Sociale, il cuore universitario di Bologna che spesso, nella mia immaginazione, ha continuato a pulsare nelle mie recenti continue visite come allora.

Pochi giorni prima, avevo visto un film che considero tra i più belli degli ultimi anni, Machuca, film di formazione di tre ragazzini divisi dal ceto sociale nel Cile del golpe di Pinochet. Teso, commovente eppure capace di non far stillare una lacrima e di lasciare una particolarissima sensazione di sdegno (bruxato, complesso, non immediato e proprio per questo ancora più profondo), recitato splendidamente da tre mini-attori. Ma con un paio di cadute madornali: una, la sfocatura del corso di un fiume che non c'entrava nulla nel momento in cui uno il bambino ricco bacia per la prima volta la vicina di casa e giochi del bambino povero; due, l'insistenza nel passaggio dell'inquadratura davanti ai murales degli Anni 70 o sulle prime pagine dei giornali dell'epoca. Come se non fosse sufficientemente forte quello che i personaggi stavano rappresentando.

Eppure, nella stessa newsletter, Wu Ming 4 mi stronca al primo respiro. Scrive:
Nonostante il sottotitolo imposto dalla distribuzione, quello che abbiamo scritto insieme a Guido Chiesa non è un film su Radio Alice.
Non è una ricostruzione storica filologicamente corretta di fatti e circostanze (con la sola eccezione dell'omicidio Lorusso, per il quale ci siamo attenuti alla documentazione fornitaci dal legale della famiglia).
Non è nemmeno un film sugli anni Settanta.
Lavorare con lentezza è un film di rapina, ambientato negli anni Settanta, che ha le vicende di Radio Alice come sfondo. Personaggi ed eventi si ispirano ai racconti e alle testimonianze dirette, ma non pretendono di ricostruirli fedelmente. Il gioco del "quello sono io, quello sei tu..." sarebbe stato insostenibile, visto che i protagonisti di quella piccola epopea sono tutti qui.
Il 1977 che vedrete nel film è il "nostro" 1977, un'epoca in cui Guido, il più vecchio di noi, aveva sedici anni e il sottoscritto ne aveva quattro. Noi non c'eravamo, ma ci è piaciuto vederlo così.


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L'arte del recensire - 1 / Maestri

Binario loco, bontà sua, mi ha invitato a far parte di una futura iniziativa dedicata al cinema. A lui interessano le mie fugaci considerazioni su alcuni dei film che vedo e, in nome della libertà di critica concessa dalla rete, vuole coinvolgermi in un progetto indipendente a più mani.

Mi sono chiesto se io sia davvero in grado di sostenere un ruolo, sia pure secondario e defilato, come questo. Se, cioé, un semplice spettatore quale io mi considero abbia il diritto e soprattutto gli strumenti, culturali e tecnici, per esprimere una critica compiuta, per poter dire in modo credibile: "Questo mi piace, questo no". E' la solita vecchia storia, sulla quale mi sono già espresso a proposito del rapporto fra blog e giornalismo: è la conoscenza e l'uso del mezzo a fare la differenza, non il mezzo in sé.

Naturalmente, mi sono anche chiesto quanto un eventuale nuovo ruolo (diciamo, pomposamente) ufficiale avrebbe potuto incidere sul mio modo di scrivere. B.George, agli albori del fenomeno weblog, mi allineò tra i tessitori di pensieri e parole: in questa definizione continuo a trovarmi, poiché cerco sempre collegamenti, allargamenti, occasioni trasversali. Il commento su un film, per me, s'incastra in una riflessione più ampia, la sfiora, diventa una causa oppure un effetto.

Mentre ero alla ricerca di risposte, mi sono imbattuto in due articoli-recensioni che mi hanno illuminato. Uno è quello di Bernardo Valli sull'ultimo libro di Rosetta Loy, pubblicata da Repubblica il 3 ottobre, dal titolo Con gli occhi sul passato. Comincia così:
Nero è l'albero dei ricordi, azzurra l'aria (...) spinge a considerazioni preliminari, introduttive, tutt'altro che superflue. Anzitutto il lettore, poiché di lui si tratta, del lettore, testimonia che le bozze, suddivise in tanti quinterni al fine di distribuirle in varie tasche (giacca, impermeabile) e quindi di poterle manovrare con facilità fuori dalla poltrona domestica, durante gli spostamenti, anche i più scomodi (in taxi, in piedi nella metro o nelle code d'attesa, nelle pause davanti al computer, al ristorante), hanno avuto su di lui un effetto ormai raro. Anzi rarissimo. Vista l'odierna avarizia dei romanzi. Le pagine della Loy gli hanno creato quell'isolamento dalla realtà circostante di cui, come lettore, è alla costante ricerca. Una ricerca affannosa e spesso vana, nelle librerie e nelle rubriche culturali dei giornali, condott con l'ansia di un disperato cane da tartufi perduto nell'asfalto della città. La caccia a una droga? Se lo è, è una droga leggera che dà una magica sensazione di solitudine.
Il colettivo dilaga ovunque, sommerge gli esigui spazi riservati a chi vuol resistere come individuo. Tutto è in funzione del gruppo, e tanto meglio se il gruppo diventa massa. Il branco domina.(...) Per non parlare dell'audience. Il fenomeno non è poi tanto nuovo.
In tempi remoti il poema epico non si rivolgeva, per la sua stessa natura, a più ascoltatori? Non era forse una forma di comunicazione tra il poeta e un pubblico aristocratico, anche se popolare? E ovviamente il dramma, in tutte le sue versioni, antiche e moderne, cinema compreso, esige il pubblico di un teatro. Ma si tratta di (preziose) quisquilie rispetto alle rappresentazioni che oggi attirano milioni di mosche-spettatori, terrorizzati dall'idea di restare soli. Come se la solitudine fosse la morte. La precedesse di poco. Un'anticamera fatale.

E via riflettendo. Uno splendido esempio dell'uso di categorie generali e considerazioni personali come uno specchio per esprimere il valore dell'oggetto della recensione.

L'altro articolo è a firma di Marco Di Capua, pubblicato sull'Unità dell'8 ottobre, sulla conferenza stampa di Moi! Autoritratti del XX secolo, una mostra che si terrà alla Galleria degli Uffizi di Firenze fino al 9 gennaio 2005. Anche in questo caso, l'attacco, originalissimo, è autoreferenziale eppure straordinariamente ecumenico:
La fila. Non sai esattamente di cosa si tratta se prima non l'hai vista formarsi e snodarsi, paziente e silenziosa come un animalone da preda, davanti a un museo. Quella è la fila. Davanti agli Uffizi non è impressionante come in certi giorni ai Musei Vaticani, quando non sembra nemmeno che la processione inizi a Roma ma in qualche altra città, però sembra proprio che non si muova mai. A Firenze la fila è immobile. Poi capisci perché o almeno ti dai una spiegazione, quando salti la fila uno (di quelli senza prenotazione) e salti anche la fila due (di quelli con la prenotazione) ed entri e sali le scale per andare alla conferenza stampa dove devi andare, e passi per le sale più stupefacenti del mondo, e ti accorgi che tutti si muovono al rallentatore come sulla luna, e capiti davanti ai capolavori beato e stremato e decidi, se hai fatto la fila, che da lì non te ne andrai mai più. Con i miei occhi: ho visto una signora che di fronte a ogni quadro leggeva lentamente, pesando le parole, tutte le pagine che gli avevano dedicato i manuali e poi, con le amiche, apriva il dibattito. Proprio così: "l'Argan" dice questo, il "Briganti" quest'altro...

Nulla passa in second'ordine, al contrario tutto ciò di cui si vuol parlare (e successivamente si parlerà) viene riportato a una dimensione reale, fruibile da chi legge, poiché vicino, non accademico, non calato dall'alto.

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8.10.04

Risvegli

Ascoltato a Radio3, ieri pomeriggio, Alessandro Bergonzoni mi ha entusiasmato due volte. Prima per l'iniziativa che ha sostenuto con energia, la sua energia, l'apertura di una Casa dei risvegli, dedicata ai pazienti in coma. Poi per il modo in cui ne ha parlato, rendendola letteraria, intellettuale, filosofica.

Dal 19, se non sbaglio, sarà in teatro a Bologna con un nuovo spettacolo. Andarci, mi sembra un'ottima idea.

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6.10.04

Propositi per il futuro

La scorsa settimana, ho cercato inutilmente tra i blog che frequento abitualmente qualche commento alla trasmissione su Retequattro dell'ultima intervista di Tiziano Terzani, Anam. Il senza nome, realizzata da Mario Zanot (oggi si proietta all'Odeon Cinehall di Firenze alle 20.30). Avrei voluto condividere la commozione che mi ha provocato quel documentario. Mi sarebbe piaciuto condividere la sensazione di pace interiore, di tolleranza e di apertura verso il mondo, verso l'altro, di qualunque genere, colore e pensiero sia, che Terzani era riuscito a trasmettere. Avrei desiderato confrontare l'idea di curiosità, il piacere per la scoperta, per la comprensione della diversità che quell'uomo con la barba bianca e un male dentro che lo avrebbe portato via di lì a poco emanava come una luce.

Nella vana attesa di un segnale, ho ripreso un libro che negli ultimi giorni mi ha appassionato, come non mi accadeva da tempo, Scrittura cuneiforme, di Kader Abdolah, edito da Iperborea. E mi sono imbattuto in queste due pagine:
Ma mio padre sapeva cosa fosse l'amore? Era consapevole del suo "essere innamorato"? Intendo dire: era in grado di capire di essere entrato nel mondo dell'amore? Il desiderare profondamente un'altra persona: avrebbe saputo spiegarlo? Il voler stare con lei, tenerle la mano, respirare l'odore dei suoi capelli, possederla.
Bisogna averlo letto da qualche parte, bisogna averne sentito parlare o parlato, altrimenti non puoi sapere quello che ti sta succedendo.
C'è un antico libro persiano che parla dei viaggi di Molla Nasredin. Per capire il senso della vita, Molla viaggia a piedi per il mondo. Alla porta di Hamadan vede una folla, uomini, donne, bambini, cammelli, asini, cavalli, capre e galline che corrono tutti dietro un giovanotto. Il giovanotto piange, balla e balbetta parole incomprensibili. Poi si lascia cadere a terra e si rialza. Piange ancora, ride, corre e si getta della terra in testa.
Molla ferma un rozzo anziano: "Dimmi fratello, che cos'è successo a quel ragazzo?"
"L'amore si è impadronito di lui. E tutti vengono a vedere per fare conoscenza con l'amore".
(...) In realtà, come persiano, non hai bisogno di avere conosciuto l'amore. Ovunque, nei racconti persiani, nei miti e perfino nel libro sacro, si parla d'amore. Come qualsiasi persiano anche Tine doveva conoscere la storia di Sjeeg e la Tarsa.
Sjeeg, il vecchio capo sufi, sta andando a piedi alla Mecca con migliaia di suoi seguaci. Sono in cammino da mesi. In una di quelle città straniere, Sjeega incontra al bazar una giovane e bella tarsa (donna cristiana) e se ne innamora all'istante. Cosa peggiore non poteva capitargli: essere in cammino verso la Mecca e innamorarsi di una tarsa! Sjeed lascia perdere la Mecca e va a piedi nudi alla ricerca della ragazza.
"Sjeeg è caduto!" risuona in tutto il mondo musulmano.

Trovo che sia una bellissima risposta da suggerire al protagonista di Le conseguenze dell'amore (uno straordinario Toni Servillo), il film di Paolo Sorrentino che ho trovato eccellente per tre quarti della durata. Prima della virata noir della conclusione, l'atmosfera algida, tutta di testa, fa scorrere sotto traccia - e stimola a immaginare - gli intarsi sentimentali, l'attrazione e la passione per una giovane donna nell'animo di un personaggio, un cassiere della mafia ha esiliato in Svizzera da dieci anni al ruolo di riciclatore di denaro per rimediare a un "buco" del passato, che apparentemente invece rinuncia a pensare e si chiude in un isolamento e in un silenzio per i quali è disposto anche a morire.

"Propositi per il futuro: non sottovalutare le conseguenze dell'amore" annota appunto Titta De Girolamo, il protagonista. Lo stesso proposito che dovrebbero fissare anche i due protagonisti di La vita che vorrei, operina un po' stanca di Giuseppe Piccioni che non ritrova nella coppia Sandra Ceccarelli - Luigi Lo Cascio l'intensità che aveva dato un senso al precedente Luce dei miei occhi, malgrado la buona idea di partenza di intrecciare il film nel film, trasformando la controversa storia d'amore dei due personaggi in una prosecuzione della loro recita in una fiction in costume, anche abbastanza improbabile.

Tra i silenzi, le pause, gli sguardi vuoti eppure così pieni di Servillo e i primi piani insistiti sul sentimento inespresso e inesprimibile, prigioniero dell'egoismo e della vanagloria, di Lo Cascio e della Ceccarelli, un pochino più espressiva nel ruolo di un'attrice che lascia adito all'equivoco, corre una differenza che, in tempi di magra per il cinema italiano, mi fa gridare appunto all'eccellenza.

Non siamo nella Persia antica, del resto, e sembra che per i nostri registi sia proprio impossibile trovare spazio in una storia d'amore per quello splendido gesto con il quale Terzani si è congedato dal suo ultimo intervistatore e dalla vita: una risata.

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5.10.04

Amici

Ho sempre considerato Gianmaria Vacirca, che conosco da quando era il tuttofare di Telebasket, un talento inguaribile. Uno di quelli con tante belle idee che fan presto a diventare troppe. Sa scrivere, è appassionato, attento, curioso. Credo che nel suo blog, aperto da qualche giorno, lo farà sentire, vedere e provare.

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Chez Albertini

Alla fermata dall'autobus, un paio di giorni fa, in una via del centro di Milano, a poca distanza dal Tribunale.
Mi si avvicina un uomo, uno di quelli che ormai per comodità definiamo "albanesi" nella migliore delle ipotesi, "zingari" nella peggiore. Ha la barba lunga e uno sguardo che ormai per comodità definiamo "equivoco" nella migliore delle ipotesi, "da delinquente" nella peggiore. Bofonchia qualcosa, sollevando una busta plastificata che contiene alcuni fogli. Io, preso dalla lettura di un volantino, giro lo sguardo verso di lui, lo ascolto distrattamente. Mi sembra di capire: "Scu... ra ... lavoro". Mi starà chiedendo quello che ormai per comodità definiamo "elemosina" nella migliore delle ipotesi, "rottura di coglioni" nella peggiore. In automatico, gli rispondo "No" scuotendo la testa infastidito e porto la mano alla tasca posteriore destra dei pantaloni, controllo il portafogli.
Torno al volantino, l'uomo si allontana senza battere ciglio e si dirige verso una ragazza che attende l'autobus, come me.
In una frazione di secondo mi passano nella testa i seguenti tre pensieri:
  • se davvero avesse chiesto l'elemosina, non avrebbe usato la parola lavoro

  • è ben strano che chieda lavoro a me, a una fermata dell'autobus

  • dopo che gli ho risposto di "no", non ha insistito neanche un attimo in più.

Il quarto pensiero svela l'enigma. In una parte remota del mio cervello, qualcuno che lo abita ha sentito distintamente questa frase: "Scusi, la Camera del Lavoro?". Guardo di nuovo l'uomo. Non ha ancora cominciato a rivolgersi alla ragazza. Gli dico: "Senta, ma mi ha chiesto dov'è la Camera del Lavoro?". Lui: "Sì". Io: "Scusi, non avevo capito. E' qui vicino. Allora, deve...". L'uomo si avvicina, segue la mia spiegazione. Annuisce, mi ringrazia. E mi tende la mano. Io resto interdetto, stupito, confuso. Gli tendo la mia mano. Lui la stringe forte e se ne va.

Volevo solo dormirle addosso Un elemento ha accomunato quell'uomo a me: la consapevolezza. Consapevolezza dei ruoli, della diffidenza quotidiana, dei pregiudizi e delle aspettative che quei pregiudizi possono lasciare irrealizzate, in una grande città del nostro grande Paese, nella quale il tormentone su cui si basa il divertente film Volevo solo dormirle addosso ("Ti stimo molto", dice il protagonista a chiunque, anche alla sua compagna di letto dopo aver trascorso la notte addosso a lei, appunto) non è purtroppo una battuta ma un modo abituale di salutarsi. Al punto che, di fronte a un semplice gesto di attenzione, quell'uomo si è sentito spinto (forse per sua abitudine, non certo mia) a ringraziare con un altro gesto, fisico, intimo; a scambiare quello che in una chiesa credo tutt'ora si chiami un segno di pace.

Ripensavo oggi a quel che mi è accaduto, leggendo l'editoriale di Armando Torno sulla prima pagina della cronaca milanese del Corriere a proposito dell'idea di istituire un garante per l'estetica per la città. A differenza del solito, condivido l'analisi rassegnata:
Milano non riesce più a curare se stessa: i grandi progetti vengono ormai presentati come eventi straordinari, invece per una metropoli dovrebbero essere la normalità; la cura delle piccole cose è sostanzialmente disattesa e gridiamo al miracolo quando qualcuno se ne preoccupa.

Ma poi non riesco ad accettare la conclusione:
(Il garante per l'estetica) Dovrebbe essere anche la voce dei cittadini per i problemi che vanno dal traffico ai trasporti, dai servizi al controllo del paesaggio urbano, la cui trascuratezza è fonte di abbrutimento. Già, i cittadini. Sembrerebbe che a volte non riescano più a capire gli amministratori e questi ultimi pare che sovente si dimentichino degli amministrati. Per qualcuno il garante potrebbe essere una figura in più da sopportare. Sarà. Ma, detto tra noi, che cosa costa tentare anche questa carta?

E' proprio la logica del "cosa costa" che non è più accettabile. Che cosa costa sorbirsi altri cinque anni di Albertini e di giunta imbalsamata dalle spinte contrastanti dei partiti? Che cosa costa pensare di avere un sindaco-non sindaco, purché sia di sinistra? Che cosa costa nominare un garante o un controllore, comunque lo si voglia chiamare, visto che chi dovrebbe amministrare non lo fa più e non ha alcuna intenzione di farlo?

Purtoppo costa molto. Il prezzo è la diffidenza, il silenzio, la chiusura, l'intolleranza nei confronti di chiunque, anche di chi prova a integrarsi cercando lavoro e mettendosi in regola; quella "stanchezza quotidiana" che sta facendo rinchiudere Milano in se stessa, nella convinzione di essere capace di andare avanti a prescindere, nella pre-sunzione del suo pre-giudizio: il giudizio di essere davanti, migliore, prima appunto. Ma da sola.

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28.9.04

Dream Team

Neanche Mauro Bevacqua è nuovo di questo blog. Qualche mese fa provai a coinvolgerlo in un dialogo sul cinema, ma la cosa durò poco perché il ragazzo è di quelli seri: non spara volentieri per il gusto di sparare, preferisce stare nella sua cesta. Ma quando decide di venire allo scoperto, i risultati sono molto buoni. Basta vedere DreamTeam, un mensile di basket in edicola da pochi giorni (presentato questa sera con una festa al Tocqueville di Milano) e di cui Mauro è direttore. Una bella idea davvero, nuova, per la grafica e i contenuti, con uno spazio dedicato al Lifestyle, nei pressi del quale non a caso Bevacqua ha inserito una sua intervista con Spike Lee di cui tratteggia una filmografia straordinariamente ragionata. Insomma, un giornale da comprare e, come dice Flavio Tranquillo, soprattutto... ricomprare.

Anche perché Mauro, dopo mesi di silenzio, si è rifatto vivo, con questa mail, ovviamente cinematografica:
Scopro che abbiamo amato (io almeno molto) un film in comune. Ho visto Mar Adentro a Venezia, al Festival, dove anche quest'anno sono riuscito a fare una tregiorni molto intensa. Da tempo un film non mi tirava un cazzotto nello stomaco simile. Perché a me i film piacciono così, lontani dai lieto fine, lontani dalla retorica. Trovo che fosse onesto e molto, molto attuale. Bravissimo Bardem (premiato a Venezia), ma bravissima l'avvocatessa e bravissima anche - nella sua dignità silenziosa - la donna di famiglia che lo curava in casa (la moglie del fratello? non ricordo... comunque quella che era sempre in cucina, quella che in tutto il film dice due-tre battute
al massimo ma mi è sembrata vera, onesta e orgogliosa...).

Di film che vale la pena segnalare, a Venezia poi ho visto il nuovo di Todd Solondz, Palindromes. Purtroppo, lui (se non lo è già) presto diventerà di moda, proprio in quella parte di pubblico che ama dichiararsi amante del cinema, diciamo "da Anteo" (cinema milanese molto up culturalmente, per chi non è della città) che un po' comincia a starmi antipatica... (forse più di un po'). Lui è bravo. Il film è un vero indipendente, può piacere tantissimo e magari meno. A Londra recentemente sono riuscito a comprare il dvd dell'unico suo film che non avevo visto - e la cosa mi ha molto soddisfatto. Oh, io sono uno che se la spassa con poco...

Ho deciso di verificare di persona. E proporrò a Mauro di andare a vedere insieme almeno uno dei film che tra il 12 e il 16 ottobre faranno parte del Tribeca Film Festival, in programma alla Fondazione Prada. Cito dal comunicato stampa, reperibile in rete:
Tribeca Film Festival alla Fondazione Prada, il primo evento di un progetto permanente a cadenza annuale, nasce con l’obiettivo di creare un vero e proprio festival, che crescerà progressivamente nelle edizioni successive, al quale il pubblico potrà accedere liberamente. Il programma prevede un gala première, alla presenza di Robert De Niro e dei co-fondatori del festival Jane Rosenthal e Craig Hatkoff, e sei anteprime (tre documentari e tre fiction), accompagnate da un fitto programma di incontri con i registi e con gli interpreti, secondo la consuetudine del Tribeca Film Festival.

Tra i documentari il festival presenta due anteprime europee, “The Beauty Academy of Kabul” (USA, 2004) e “Lipstick & Dynamite, Piss & Vinegar: the First Ladies of Wrestling” (USA, 2004), e l’anteprima italiana “Arna’s Children” (Palestine/Israel/The Netherlands, 2003); tra le fiction l’anteprima europea “Killer Diller”(USA, 2004).

Se Mauro soffre poco l'Anteo, non voglio immaginare quali reazioni potrà avere nel regno del trendy.

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27.9.04

A casa di Suzanne

Valerio Piccolo non è nuovo di queste parti: ho scritto di lui come di un esperto sommelier, di un bravissimo traduttore dal russo e dall'inglese e soprattutto di un grande e carissimo amico che qualche tempo fa ho ritrovato per caso dopo anni.
A love song for Bobby LongBene, Valerio è stato l'autore dei sottotitoli di A love song for Bobby Long - film "dannato" d'atmosfere carveriano-lethemiane con un finale inutilmente buonista, interpretato da un eccezionale John Travolta -, da aggiungere alla lista dei film freudiani assieme a Nemmeno il destino di Daniele Gaglianone (psichedelica e convincente storia di degrado giovanile in una grigia metropoli molto simile a Torino). Ed è il curatore del nuovo libro di Suzanne Vega, Giri di parole, che sarà pubblicato in esclusiva mondiale da mimimumfax a ottobre. Forse non a caso, visto che Valerio ha ormai con lei un rapporto molto stretto, di straordinario scambio intellettuale e culturale, avendo partecipato ai suoi reading italiani, che la stessa Vega ha sintetizzato così in un'intervista a Specchio della Stampa il 18 settembre scorso:
Domanda - Ha mai fatto la traduttrice?
Risposta - No, non l'ho mai fatto, ma ho lavorato spesso con i miei traduttori: con quello italiano, con quello spagnolo, quello giapponese. E' un lavoro difficile, non basta sapere il significato delle parole, ma anche l'intenzione che sta dietro le parole. Il fatto è che il traduttore è necessario per arrivare a un pubblico straniero. Se si riesce ad arrivare dentro la cultura di un Paese, questo è solo e unicamente grazie al valore di chi traduce.


Per entrare nella cultura di Suzanne Vega, Valerio Piccolo è andato a trovarla due settimane fa a New York, una data tutt'affatto casuale come si comprenderà, compiendo un vero e proprio blitz che lo ha sconvolto. Ho il privilegio di pubblicare una sua mail in cui descrive l'esperienza, piena di suggestioni uniche, assolutamente straordinaria. Eccola:
Suzanne Vega frequenta da 20 anni un circolo di cantautori del Greenwich Village, fondato da Jack Hardy, cantastorie storico del Village. Si vedono tutti i lunedì a casa di Jack, ognuno porta una canzone nuova e ci discutono sopra.

Jack ha perso un fratello per conseguenze da Vietnam, e l'11/9 perde anche un altro fratello che lavorava al WTC.

Nel marzo 2002, Suzanne Vega produce un cd (Vigil) con canzoni sull'11/9 scritte da ognuno dei membri del circolo dei cantautori. Il ricavato va in beneficienza.

Lo scorso weekend, in occasione del terzo anniversario del'attentato, Suzanne, spronata dal suo musical director e bassista di lunga data Mike Visceglia (che ha una casa lì vicino), prende parte a questa due giorni di concerti al Full moon Resort (www.fullmooncentral.com), un posto delle Catskill Mountains (2 ore e mezza da NY, mezz'ora da Woodstock) dove si repira atmosfera hippy (il proprietario è un ragazzo che, per effetto delle canne, sorride praticamente sempre) e si organizzano eventi culturali di questo tipo.

Nella casa centrale del Resort, artisti e ospiti si incontrano, fanno colazione insieme, chiacchierano. Sul prato si allestiscono barbecue e rinfreschi, mentre nelle casupole e nel tendone adiacenti vanno avanti gli eventi in programma, ovvero:

- venerdì sera, in una delle casupole, si inaugura una mostra dei lavori di Tim Vega, fratello di Suzanne, graffitista e disegnatore di poster e magliette per gruppi musicali di NY. Tim lavorava al World Trade Center, ma la mattina dell'attentato era malato e non ci andò. Tre mesi dopo, è morto. Suzanne e la madre (anche lei presente a questo evento) hanno raccolto i suoi lavori sparsi un po' dovunque e li hanno messi in mostra (c'erano anche belle cose). La mostra resta aperta per l'intero weekend;
- dopo l'inugurazione, nella baracchetta di fronte alla casa centrale del Resort, Suzanne Vega apre una serata di grande musica, leggendo storie dal suo libro (quello che ho tradotto io). Poi salgono sul palco tre musicisti (Vicky Genfan, Amy Correia e Joey Eppard) che, pur semi-sconosciuti in Europa e ancora emergenti in America, sono di altissimo livello. Ad accompagnarli, una band formata dal citato Mike Visceglia, un chitarrista di nome Ben Butler e addirittura Jerry Marotta alla batteria (Jerry ha suonato con Peter Gabriel per un casino di tempo, e una volta anche con Pino Daniele: anche lui ha una casa da quelle parti);
- il giorno dopo, colazione per tutti e, alle 2, in un tendone semiaperto allestito sul prato davanti la casa centrale (per avere più posti a sedere) si esibisce Suzanne in duo con Mike. Le fa da apripista Amy Correia, favolosa cantante di cui sta per uscire il secondo album (il primo ha avuto anche qualche recensione italiana in rete, cfr. Kataweb). Suzanne canta, è lei l'evento del weekend. Il pubblico gradisce, lei mi fa una graditissima sorpresa affettiva: mi ringrazia dal palco, spiegando a tutti che sono arrivato fin lì da Roma. Poi invita tutti al barbecue.
- Dopo il barbecue, di nuovo nella baracchetta per la serata finale. Sul palco, Suzanne canta un paio di pezzi, poi fa da presentatrice al "Vigil project", cioè a 4 dei cantautori presenti nel famoso cd dell'11/9 che si esibiscono a turno. Per ultimo, sale Jack Hardy, e la sua è un esibizione sentita e di grandissima commozione che lascia tutti senza parole.

Il giorno dopo, è il momento dei saluti, ma io e i cantanti superstiti (Amy, più un paio dei "Vigil") ci arrampichiamo, guidati da Mike, su uno dei Monti Catskill, per goderci un grande panorama. Due ore di trekking!!

Non credo di aver mai assistito a una cosa di tale intensità emotiva. E' stato un weekend di quelli che ti cambiano, e forse neanche poco.

La prima conseguenza è stata coinvolgere minimufax in un progetto che di sicuro porteremo a termine: una rassegna musicale, spalmata su 3 mesi, tipo "New York a Roma", in cui 10 songwriter americani si esibiranno in "solo-concerts". Sulle sedie, gli spettatori troveranno, oltre alle note biografiche degli artisti, anche la traduzione delle loro canzoni, fatta dal sottoscritto. Così, l'accento verrà inevitabilmente posto sulla scrittura nella musica. Lo farò.

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17.9.04

Attenti al fuoco / 2 - Ditelo con i Freud

Scorro la lista dei film appena visti e osservo che, con l'unica eccezione di Uzak, tutti trattano storie familiari molto particolari e nella stragrande maggioranza i padri siano considerati l'anello (molto) debole: quando non muoiono, se va bene fuggono.

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Baratti musicali

La Sinfonia n.40 di Mozart (che contiene uno dei temi più famosi al mondo) e la Sinfonia n.8 di Beethoven (la meno nota, anche se non la meno preziosa). Che cosa ha dovuto inventarsi Riccardo Chailly, per far passare nella serata di apertura della stagione dell'Orchestra Verdi di Milano la bellezza di 12 minuti e 45 secondi di Goffredo Petrassi per cominciare a dare sempre più spazio alla musica moderna e contemporanea: un Saluto augurale e una Passacaglia, entrambi in prima esecuzione, che avrebbero comunque potuto vivere di luce propria.

E che luce, soprattutto la Passacaglia, composta nel 1931, quando Petrassi aveva 27 anni: tutt'altro che un esercizio scolastico, come Enrico Girardi, simpaticissimo critico musicale del Corriere della sera con il quale ho trascorso buona parte della serata, ha azzardato senza averla mai sentita. Il neoclassicismo della forma è supportato da echi di Gershwin e Debussy, con elementi timbrici che richiamavano al Respighi delle Fontane di Roma: ben più che interessante, a tratti molto coinvolgente, soprattutto comprensibile per orecchie, come le mie, ancora poco avvezze alla musica contemporanea. Di sicuro, più toccante delle due colonne d'attacco con le quali Chailly ha messo al sicuro il risultato, in tutti i sensi.

La sensazione è che, sia pure trascinato da un entusiasmo palpabile, il direttore abbia operato più sulla superficie che in profondità. L'orchestra ha ormai raggiunto un notevole equilibrio di suono e di lettura, ma ha ancora qualche lacuna (specie nei violini) nell'interpretazione, nell'anima insomma. Così, lo spirito dolente della Sinfonia di Mozart è soltanto accennato, la scelta dei tempi di esecuzione del Minuetto sia di quest'ultima sia dell'Ottava di Beethoven - estremamente rapidi - li svuota di personalità evocandone unicamente la natura giocosa un po' troppo infantile, i rari piano e pianissimo sono decisamente meno accentuati rispetto ai forte e ai fortissimo d'assieme nei quali l'orchestra si sente di più (nel senso di riconoscersi, ma anche di ascoltarsi da dentro). Perfino il pubblico della prima è filato via abbastanza rapido, senza troppe ovazioni inutili.

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16.9.04

Attenti al fuoco

Effe ha ragione a proposito del post sul film di Susanna Tamaro: i preconcetti di uomo sono sacri. Io ho invece deciso di toccare con mano e... ustionarmi. Anche perché, dimenticavo, tra i titoli di coda ho dovuto anche leggere che Nel mio amore è un film di interesse culturale nazionale! La nazione di chi? Non in mio nome.

In questi giorni, comunque, mi sono consolato, vedendo molte cose belle (film, letture teatrali, ecc.), rispetto alle quali la Tamaro non solo scompare ma addirittura non esiste. Ad esempio, Le grand voyage, che ha vinto il premio alla Biennale di Venezia come opera prima, tratta un tema molto simile a quello di Nel mio amore: lo scontro culturale tra un padre tradizionalista e un giovane figlio moderno e laico (il primo parla arabo, il secondo francese); due generazioni di emigrati in Francia; il viaggio del padre verso La Mecca, che il figlio è costretto ad assecondare; la scoperta di una fede condivisa, partecipata, fonte di tolleranza, saggezza, pace; la morte necessaria per raggiungerla e sublimarla. Ismaël Ferroukhi, il regista, a sua volta marocchino cresciuto in Francia, descrive tutto con una misura straordinaria, talvolta con ironia, ma sempre con l'intensità giusta e senza mai banalizzare quel rischiosissimo argomento che è il conflitto di generazioni e di culture.

Il neofrancescanesimo della Tamaro impallidisce al cospetto di Private, di Saverio Costanzo, che ha vinto il Pardo d'oro al Festival di Locarno. Un film buio (a cui ha contribuito l'uso della telecamera digitale, nelle riprese quasi tutte in interni) come l'infinito conflitto fra palestinesi e israeliani, ma nel contempo luminoso nel messaggio di nonviolenza: si può combattere rimanendo fedeli alle proprie idee, non uccidendo nessuno, subendo la violenza cieca e insensata degli altri ma trasformando questa scelta di dignità in una vittoria dell'anima a cui anche gli istinti più ribelli alla fine si adeguano, non si rassegnano. Eccellente.

Private è stata la migliore tra le tante ultime pellicole viste, comunque tutte di buon livello:
  • Uzak. La neve di Istanbul non è mai stata così poeticamente associata al silenzio interiore, all'incomunicabilità e al rimpianto. Voto: 8
  • Un mundo menos peor. La costruzione di una felicità posticcia da parte di un uomo, ex perseguitato politico, che prova così a cancellare un passato di dolore; l'ineluttabilità dei sentimenti che riaffiorano.Voto: 7+
  • Vento di terra. Se gli argentini rimescolano tutto insieme (le Malvinas, la dittatura, la Patagonia, ecc.), non vedo perché noi italiani non possiamo associare nello stesso film la povertà di Secondigliano, la disoccupazione meridionale, l'uranio impoverito del Kosovo, insomma una sconfitta costante su tutti i campi: soprattutto se descritto in questo modo nitido, neorealista senza concessioni, essenziale. Voto: 7.5
  • The Manchurian Candidate. Basti dire che io, che non amo i thriller politici, non ho perso il filo per un attimo, anche di fronte a trovate improbabili (ma forse neanche tanto). La realtà della politica americana non è così lontana dalla fantascienza. Voto: 7.

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Amore di Tamaro

Ho detto "Grazie" alla mia amica G.. E l'ho fatto con sincerità. Perché è stata lei a invitarmi all'anteprima del film di Susanna Tamaro, martedì sera a Milano. Ed è stata lei a impedirmi di continuare a ragionare, criticare e censurare, mosso solo da preconcetti. Non fosse stato per G., avrei sicuramente detto che "Nel mio amore", opera prima dell'autrice di best sellers italiani, fa schifo, è inguardabile, è una melassa senza senso, senza neanche averlo visto. L'ho visto, invece, e posso dirlo: è molto peggio di quanto avrei mai potuto pensare, per pura teoria.

Il film è irritante, per costruzione della storia e recitazione. E' un pappone di banalità didascaliche. Un documentario (con un'insistenza urticante per primi piani in stile coreano su fronde d'alberi autunnali, spiegabili solo con la passione della Tamaro per la botanica) su un'idea di francescanesimo moderno, buono da distribuire nei negozi delle Edizioni Paoline. Le reazioni in sala, anche da parte di illustri critici che (visto l'editore della Tamaro, la sua sponsorizzazione ufficiale da parte della Comunità di Sant'Egidio, ecc) scriveranno molto probabilmente il contrario, erano di sconforto, fastidio, noia, stupore per l'assurdità di scene, situazioni, dialoghi. Insomma, è un film inutile, assurdo, ridicolo, mortale.

Ancora stamattina mi chiedevo come fosse possibile non solo produrre qualcosa del genere (che Fulvio Lucisano abbia avuto un'illuminazione sulla via di Cinecittà, è ormai certo), ma pensarlo e realizzarlo. Ho trovato la risposta qualche ora fa, in questo articolo del Resto del Carlino. Vi si annuncia, tra l'altro, che quasi sicuramente il Papa vedrà il film (povero, è già messo così male...), ma soprattutto si spiegano le origini, come dire, mistiche dell'impresa:
L'esordio dietro alla macchina da presa, ammette la Tamaro, è stato 'terrorizzante. Avevo paura soprattutto di non reggere i ritmi del set, profondamente diversi da quelli di uno scrittore. Sono partita con una valigia di integratori alimentari facendomi fermare alla dogana dall'antidroga che ha voluto controllare tutte le pasticche che prendevo».

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10.9.04

Son quaranta...

... e son contento di dimostrarli tutti. L'ho detto anche alla mia mamma, ieri sera, al telefono, quando mi ha avvertito di avermi spedito un "piccolo bonifico" per il mio compleanno. Le ho risposto che non avrebbe dovuto: il suo regalo, me lo aveva già fatto il 10 settembre di quarant'anni fa, mettendomi al mondo.

E' il regalo al quale Ramòn Sampedro, il protagonista di Mare dentro interpretato magistralmente da Javier Bardem, vuole rimanere legato per sempre scegliendo di morire per porre fine allo strazio di una vita senza dignità, tetraplegico e inchiodato per 28 anni in un letto, e per conservare fino all'estremo la sua libertà. Un film molto intenso, commovente, positivo.

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9.9.04

A Milano, a Milano

Non si è ancora sopita l'eco per i Giochi di Atene, che il Corriere della Sera, sabato 4 settembre, pubblica un'intera pagina in Cronaca di Milano con questo titolo:
"Subito una grande alleanza per le Olimpiadi a Milano"
Formigoni: la città torna a credere in se stessa, battiamoci tutti insieme
Moratti: un'occasione da non perdere per ripensare la metropoli

Mi sembra fin troppo chiaro che l'idea sia solo una buona trovata per le prossime elezioni, lanciando un sasso che potrebbe ricadere solo nel 2016 (quindi a tre legislature di distanza). Non a caso, all'interno del lungo servizio Giangiacomo Schiavi ha raccolto solo adesioni entusiastiche e banalità impressionanti in puro politichese, da destra a sinistra, compresa quella di Nando Dalla Chiesa, definito non so perché "prudente": "L'occasione è importante per attirare i finanziamenti utili alle infrastrutture, come hanno già fatto Genova e Roma con G8 e Giubileo". E non a caso, dell'iniziativa parla solo il governatore della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, mentre non c'è traccia del sindaco della città, Gabriele Albertini.

No, non può che essere una boutade promozionale. L'esperienza di Atene ha dimostrato che una città come Milano mai e poi mai potrà ospitare i Giochi olimpici. Gli ostacoli sono diversi: istituzionali, strutturali, politici e, come sintesi dei precedenti, logici.

Atene ha compiuto un vero e proprio miracolo, concludendo negli ultimi quattro mesi opere che per tre anni hanno rappresentato la preoccupazione maggiore per il Cio. Alla fine del 2002, il presidente Rogge ha dovuto ricorrere al cartellino giallo e alle minacce di trasferire altrove (dove, poi, non si sa) i Giochi se non fosse stato dato un vero determinante impulso ai lavori. Il risultato è stato straordinario, fors'anche troppo, in linea con le manie di grandezza di Gianna Angelopoulos-Daskalaki, la regina del Comitato organizzatore. Ma oggi Atene ha una quantità di impianti sportivi, di spazi espositivi, di centri da utilizzare per l'organizzazione di eventi di ogni genere, unica in Europa. Ha realizzato strutture, la cui capienza varia da 5000 a 8000 posti, alll'avanguardia nel mondo per funzionalità e capacità ricettive. Il bilancio finale è di oltre 35 impianti, fra quelli di nuova costruzione e quelli derivati dal trasferimento d'uso di vecchie strutture (come gli hangar del vecchio aeroporto nazionale).

Il miracolo è stato reso possibile dal fatto che Atene partisse da zero, o comunque da una situazione sulla quale si sarebbe potuto solo implementare uno sviluppo positivo. Il primo vero piano urbanistico della città risale al 1981: ha dato un senso al futuro, rinunciando per principio a ottimizzare il passato. Il sistema viario risale a molto prima e il traffico su gomma è stato l'unico sistema di trasporto in città fino a quando il Cio ha assegnato l'organizzazione dei Giochi, avviando così la costruzione dal nulla di tram e treno leggero e l'allungamento di due linee di metro che servivano quasi esclusivamente il centro. L'estensione della città è tale, che è stato possibile localizzare facilmente grandi aree inutilizzate nelle quali realizzare tanti impianti nuovi e collegarle con una tangenziale costruita nel giro di due anni

Tutto questo è l'opposto di Milano che non solo ha un sistema di infrastrutture già molto complesso e non facile da sviluppare, ma soprattuto non ha impianti di livello olimpico e non ha fatto nulla negli ultimi venti anni per dotarsene. Scrive Schiavi nell'articolo del Corriere:
Anche il palazzetto dello sport, crollato sotto il peso della neve nell'85 e mai più ricostruito, è il segno di un'inerzia da rimuovere. Non c'è uno stadio per l'atletica, servono le piscine olimpiche, bisogna trovare le arene per pallavolo, basket e ginnastica. Solo l'Idroscalo è all'altezza di un torneo olimpico. Poi ci sono i villaggi, i centri stampa e tv, gli alberghi.


Ecco il punto. Memore dell'esperienza di Atene, il Cio ha stabilito che, dopo Pechino, assegnerà l'Olimpiade estiva solo a città che abbiano tutti gli impianti necessari già disponibili al momento della decisione finale. Quindi, se l'obiettivo è il 2016, entro luglio 2009 Milano dovrebbe già aver chiuso i cantieri.
Di recente, Il Cio ha anche dato un ultimatum a Torino, perché entro la fine di settembre presenti il piano completo della disponibilità degli alloggi per la famiglia olimpica e i media per l'Olimpiade invernale. Ma, a proposito di Torino '06, non so da chi riuscirà a farsi sentire d'ora in poi, visto il marasma politico dal quale il Toroc (il Comitato organizzatore locale) è già travolto. La Stampa di ieri titolava "Battaglia d'autuno sulle Olimpiadi", annunciando il possibile siluramento di Valentino Castellani dall'incarico di presidente e la sua sostituzione con Franco Carraro, prossimo a lasciare l'incarico della Federcalcio. Ad Atene, su pressione di Rogge, il governo ha dovuto chiamare in tutta fretta la Angelopoulos perché prendesse il posto di un amico dell'ex premier Simitis alla presidenza dell'Athoc. Con tutte le critiche che si potranno rivolgerle, è indubbio che i risultati del lavoro di Nostra Signora dei Giochi sono stati straordinari. In Italia, potrebbe mai accadere qualcosa di simile?

Certo, per le elezioni si potrebbe far tutto. Anche vendere al popolo l'Olimpiade come un'occasione, un'opportunità. Non del tutto a torto: lo si comprende dalla dichiarazione di Formigoni contenuta nel titolo del servizio del Corriere, una contraddizione in termini. La città torna così tanto a credere in se stessa, da aver bisogno di un obiettivo faraonico e impossibile per muoversi davvero, per realizzare qualcosa di nuovo socialmente utile per i suoi abitanti, in termini di servizi e infrastrutture, oltre ai grattacieli e ai nuovi poli fieristici. Per vivere e far vivere, dunque, e non solo per produrre.

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